Kultur | Il dibattito

Romantici nostro malgrado

È giusto difendere l’identità nazionale? Alain Finkielkraut ci ha provato, con buoni argomenti, in un saggio tradotto recentemente anche in italiano.

Se in Italia (ma anche in Sudtirolo, che per impalpabilità di una proficua discussione intellettuale è provincia completamente italiana) esistesse un vero e serio dibattito sulla questione dell’identità – abbiamo, al contrario, un’inflazione del “discorso identitario”, con la conseguente sterile polarizzazione tra i suoi pessimi fautori e i suoi poco convincenti denigratori –, è certo che un libro come L'Identité malheureuse del filosofo francese Alain Finkielkraut sarebbe già stato tradotto da tempo e molti lo leggerebbero e ne discuterebbero.

Visto che ciò non accade, o accade in circoli talmente ristretti da risultare impercettibili, cerchiamo comunque di mettere da parte il lamento e avanziamo un immodesto consiglio: L’identità infelice uscito da poco in traduzione italiana per i tipi di Guanda – è un libro importante e non dovrebbe sfuggire a chi accetta il difficile compito di pensare le contraddizioni del presente (per entrare in media res, notiamo subito una frase di Paul Valéry, secondo il quale il presente “è lo stato stesso delle cose, in quanto fino a quel momento non si è mai presentato").

Si prenda, solo per fare un esempio, la vexata quaestio del “fazzoletto islamico”, da Finkielkraut trattata assai brillantemente nel capitolo “Promiscuità fracese” (pp. 43-70). È giusto che venga proibito? Oppure ciò limiterebbe la pratica della tolleranza che contraddistingue (o dovrebbe contraddistinguere) l’irrinunciabile codice identitario europeo? Come noto, in Francia esiste una legge – promulgata l’11 ottobre 2010 – che vieta la dissimulazione del volto negli spazi pubblici. Finkielkraut si dichiara favorevole alla decisione del legislatore e nel libro offre un’argomentazione tagliente contro le ragioni della “tolleranza” e la “correttezza politica” che le sostiene.

Per farlo, oltrepassando il richiamo all’universalismo illuminista che rientra al contrario tra i suoi bersagli polemici (ed è per questo che molti suoi critici l’hanno accusato di giocare col fuoco), l’autore recupera e difende un tratto identitario della cultura francese, ossia quello della “tradizione galante: “Si dice che il velo protegge il pudore, mentre invece riduce pornograficamente le relazioni tra i sessi al solo desiderio, riducendo il desiderio stesso a una pulsione stupida e violenta. Nascondendo la chioma in modo che nessun uomo, tranne lo sposo, possa guardarla, questo pezzo di stoffa dice alle donne che la loro presenza è oscena, che in loro e su di loro tutto rimanda all’anatomia e che per questo costituisce una potenziale minaccia all’ordine pubblico. Il contrario di un pan-erotismo galante: un pan-sessualismo opprimente”. Consentire l’uso del niqab o del burqa – “siano portati per costrizione o indossati per convinzione”, sottolinea Finkielkraut – significherebbe attaccare alla radice “un modo di essere, uno stile di vita, un tipo di socievolezza” e “un’identità comune” entrati in un pericoloso regime di oscillazione. Un’oscillazione – questa la tesi più interessante proposta – che non può essere governata lasciando che la convivenza si regoli da sé, perché ciò significherebbe annullare le “nostre” prerogative culturali a vantaggio di un multiculturalismo inteso scioccamente come annullamento di ogni specificità e trasmissione culturale (cfr. il capitolo “La vertigine della dis-identificazione”, pp. 71-112).

Tentando di recuperare il senso di una possibile “terza via” posta tra l’arrendevolezza anti-identitaria del multiculturalismo (che porterebbe però a una vera e propria “sottomissione” nei confronti della cultura meno tollerante, come ha cercato di mostrare anche Michel Houellebecq col suo ultimo romanzo) e il “fascismo lepenista” (ma non pochi gli attribuiscono una rischiosa vicinanza con l’impostazione del Front national), Finkielkraut pone l’accento su un testo “eretico” di Claude Lévi-Strauss (Razza e Cultura) e con lui afferma che una relativa incomunicabilità tra le culture “non autorizza a opprimere o distruggere i valori che rifiutiamo o i loro rappresentanti, ma entro questi limiti non è niente di rivoltante. Può persino rappresentare il prezzo da pagare affinché i sistemi di valori di ciascuna famiglia spirituale (o di ciascuna comunità) si conservino e trovino nelle loro fondamenta le risorse necessarie al loro rinnovamento” (p. 109). 

Solo se saremo in grado di riscoprirci dunque “romantici nostro malgrado” – e l’autore mette molte energie nel distanziarsi dalla vulgata sciovinista che, pure, è scaturita dal romanticismo politico –, riusciremo a far fronte all’urto della pluralità senza cadere nella “tentazione etnocentrica di perseguitare le differenze e di erigerci a modello ideale senza per questo soccombere alla tentazione penitenziale di rinnegare noi stessi per espiare le nostre colpe”. La posta in gioco, conclude Finkielkraut, è la tenuta di un’idea di nazione oggi quanto mai prossima alla sua “disintegrazione”.

Paradossalmente, una richiesta di umiltà, basata sul concetto di appartenenza, che invoca il rispetto di un ordine democratico (anche qui Finkielkraut coglie aspetti decisivi nella crisi nelle principali agenzie formative – cioè la messa all’incanto del canone letterario o la digitalizzazione del sapere che sta cambiando la stessa pratica della lettura) sempre più polverizzato: “Ma chi parla ormai di umiltà? Oggi non esistono ferite dell’ego che non gridino vendetta o che non pretendano un risarcimento. La società democratica esige il riconoscimento di tutti da parte di tutti. Ponendo al centro tale esigenza, spera di scongiurare i malefici dell’intersoggettività e di risolvere il problema umano. Invece, blandisce le suscettibilità ombrose e alimenta il narcisismo vendicativo delle grandi e piccole differenze. E, nella guerra dei rispetti, prende la decisione catastrofica di combattere ogni restrizione alla stima di sé” (p. 175).