Politik | Da Roma

Convivenza. Dagli occhiali al caleidoscopio?

Che sta succedendo alle relazioni tra i gruppi?

Che sta succedendo alle relazioni tra i gruppi? Davvero stanno aumentando distanza e incomunicabilità? O cambiano (quanto e come?) i fattori esterni e interni di identità e identificazione? Pregi e difetti della convivenza 2.0: note a margine di un dibattito.

Avrei voluto scrivere un breve resoconto dell’anno appena trascorso, raccontando alcuni episodi della vita parlamentare di questa legislatura “zip” (la chiamo così perché succedono cose che in periodi normali richiederebbero il triplo del tempo). Oppure una lista di propositi per il 2015, che si annuncia ancora più “zippato” e veloce degli anni scorsi. Poi ho letto alcuni interessanti contributi su Salto, tra cui la provocazione di Manfred Schullian, per il quale l’Italia più che di riforme avrebbe bisogno di un altro popolo, e la lettera aperta sulla convivenza di Maurizio Ferrandi a Florian Kronbichler, e ho cambiato (momentaneamente) idea.

Le notizie con cui si è chiuso il 2014 e si è aperto il 2015 sembrano dare pienamente ragione a Schullian. A Napoli un uomo è morto perché l’ambulanza che lo doveva portare d’urgenza in ospedale dopo un infarto era bloccata dalle auto posteggiate in doppia fila. E a Roma la quasi totalità dei vigili urbani previsti in servizio per la notte di S. Silvestro ha marcato visita. Notizie come queste giungono di continuo e fanno pensare che non ci sia speranza per il Paese. Comodo autoassolversi perché la colpa è sempre degli altri, meglio se di chi ci rappresenta (l’espressione “piove governo ladro” risale al 19. secolo, e ben precedente è l’invito evangelico a guardare la trave nel proprio occhio prima della pagliuzza in quello del fratello; insomma, il problema è vecchio come il mondo), e comodo per i rappresentanti fingere di lavorare sommergendo i cittadini di norme spesso incomprensibili o vessatorie (o entrambe le cose insieme). Sì, servirebbe davvero un altro popolo, e cambierebbero anche i rappresentanti che ne sono lo specchio fedele.

Ma la dichiarazione di Schullian avrebbe fatto lo stesso scalpore se non fosse venuta da un rappresentante di una minoranza? Anzi, della minoranza linguistica tedesca della provincia di Bolzano? In fondo agli italiani piace denigrarsi, ma si offendono molto quando lo fanno gli altri. E Schullian con la sua battuta ha sollevato due diverse tipologie di reazioni: quelle di chi lo vede come parte del composito popolo italiano (o più banalmente pagato con i soldi degli italiani e bla bla) e quelle di chi lo ritiene estraneo a quel popolo e dunque non legittimato a dare giudizi tanto tranchant. Non è dato sapere con che spirito fosse fatta la dichiarazione, e nemmeno importa poi molto. Era una provocazione e come tale ha funzionato. Ma se l’avessi detto io avrebbe avuto lo stesso effetto? E se fosse stato detto da un italiano tout court, cioè (semplifichiamo…) nato e residente al di sotto di Salorno (esageriamo: di Borghetto)? Probabilmente nessuno ci avrebbe fatto caso.

Certo è che a molti esponenti di minoranza piace accentuare la propria alterità, non solo per sacrosante ragioni culturali, ma anche per affermare indirettamente una certa superiorità. Non dimentichiamo che i rapporti tra gruppi “etnici” sono sempre legati a giudizi di valore di natura collettiva che vengono superficialmente proiettati sui singoli. Se una minoranza è anche solo istintivamente collegata a qualcosa di positivo allora chi vi appartiene accentuerà la propria differenza; se è associata a qualcosa di negativo la negherà. Se un rom o un sinto vuole trovare un lavoro nega la propria appartenenza. E quando nei primi anni ’90 arrivavano i boat people dall’Albania, gli albanesi insediati da secoli in molte zone del sud Italia hanno insistito per essere chiamati col nome tradizionale di arbëreshë e non di albanesi, per distinguersi dai profughi. Non è un mistero che da quando essere italiani non è più “in”, da noi sono aumentati i distinguo e si è acuito il solco rispetto all’appartenenza all’Italia. Anche da parte di molti “italiani”. E se le parti tra mondo di lingua tedesca e area culturale italiana fossero invertite, lo sarebbero anche le gerarchie implicite dei rapporti interetnici. Chiedere ai ticinesi se si sentono italiani…

Ed eccoci allora al secondo aspetto, evidenziato dalle riflessioni di Kronbichler e di Ferrandi. “La distanza tra i gruppi è andata crescendo“, si legge nella lettera. È vero se si considerano le dinamiche appena ricordate. Lo è meno tenendo a mente, come opportunamente fa Ferrandi, che la situazione è assai meno polarizzata di un tempo. Non vi è dubbio che vi sia stato un certo impigrimento della società, legato a tanti fattori, dal successo dell’autonomia al benessere economico, dall’uniformazione de-ideologicizzata dei valori (in cima ai quali in Alto Adige sembra stare il tempo libero, la vacanza, lo svago: il lavoro sembra non importare a nessuno, in misura assolutamente trasversale tra i gruppi linguistici) alla lenta ma inesorabile gerarchizzazione dei rapporti tra i gruppi, nelle menti più che nelle strutture. La conseguenza è un minore interesse alle relazioni interetniche. Il che non è necessariamente un male, o almeno non completamente. Non ci sono più gli scontri, e la questione etnica non è più il pensiero primo e condizionante per ogni abitante di questa terra. O almeno non lo è sempre, perché, come detto, la stessa frase ha ancora effetti diversi a seconda di chi la pronuncia. Solo qualche anno fa in Parlamento non ci sarebbero stati un Kronbichler eletto con tanti voti “italiani” e meno ancora un Palermo votato dalla SVP. Alcuni hanno accompagnato il processo con convinzione, altri lo hanno subìto per “abbandono del campo”, altri ancora lo accettano col disinteresse dovuto a consapevole saggia scelta (pochi) o ad ignavia (molti).

In ogni caso, la situazione della “convivenza 2.0” nell’era del “mondo zippato” è diversa e assai più complessa e sfumata di qualche anno o qualche decennio fa e sarebbe un errore leggerla con le categorie di allora. Sia Kronbichler che Ferrandi non intendono rassegnarsi “alla fatalità dell’ignorarci a vicenda”. Fanno assai bene, e mi iscrivo alla lista. Ma interroghiamoci anche sugli strumenti da utilizzare per non rassegnarsi. Per leggere la realtà non bastano più gli occhiali: serve il caleidoscopio e imparare a orientarsi attraverso le sue distorsioni.

Bild
Profil für Benutzer Martin B.
Martin B. Mi., 14.01.2015 - 14:23

Ihr Intellekt und Scharfsinn ist eine Wohltat. Wieso nur sind Sie eine Ausnahme in Ihrer derzeitigen Profession? (Ich weiß eine sehr rhetorische Frage)

Mi., 14.01.2015 - 14:23 Permalink