Chronik | Da Roma

Un vademecum impopolare

Openpolis pubblica le “pagelle” dei parlamentari, ampiamente riprese ma non spiegate dai giornali. Ecco cosa bisogna sapere per riuscire a leggerle.

Openpolis (www.openpolis.it) è un osservatorio della politica italiana che si occupa, tra il resto, di predisporre statistiche sui lavori parlamentari. Intento meritorio e utile, perché contribuisce alla trasparenza. Tuttavia, i numeri da soli dicono poco e lo dicono male. Vanno spiegati bene, per evitare che dati potenzialmente utili diventino strumenti populistici e demagogici. Il che può avvenire anche in buona fede, perché certe cose il “cittadino comune” non le conosce né le può sapere.

E allora proviamo a spiegare alcuni meccanismi, pur nella consapevolezza del fatto che argomentare invece di lasciarsi cullare dalla banalizzazione demagogica significa correre il rischio di essere accusati di voler coprire le malefatte dei parlamentari o, nella migliore delle ipotesi, di cercare il pelo nell’uovo. Ma correrò il rischio. Sia perché fortunatamente sono “ben piazzato” in queste classifiche, sia perché non ho una carriera politica da costruire e comunque dire le cose come stanno rende liberi e dà un senso a ciò che si fa.

I media avrebbero il dovere di informare, ma si limitano a riportare numeri suggerendo conclusioni spesso errate. Presentando le statistiche di Openpolis come se ci dicessero qualcosa della quantità e della qualità del lavoro parlamentare. Qualche mese fa La Repubblica ha pubblicato le facce di 5 anonimi deputati che avevano totalizzato il 100% di presenze alle votazioni, lodandone l’impegno. Come quando in America le imprese selezionano l’impiegato del mese, che per premio ha il diritto di posteggiare accanto al direttore. Essere presente alle votazioni è buona prassi e fa parte dei compiti del parlamentare, tanto che la riforma costituzionale in itinere prevede addirittura un obbligo in tal senso. Un obbligo non accompagnato da una sanzione. Una sciocchezza cosmica, che però dà l’idea della situazione in cui ci troviamo – e infatti tale obbligo non è previsto in alcuna costituzione al mondo.

Il punto è che essere sempre in aula vuol dire limitarsi a schiacciare bottoni, senza mai andare nei ministeri, dove le cose si decidono. Tanto per fare nomi, l’on. Plangger, che risulta bassino in termini di presenze, lavora immensamente di più di molti colleghi con maggiori presenze perché gira come una trottola per smuovere qualcosa. Il rischio di scaldare la sedia (pardon, la poltrona) è più alto tra chi schiaccia il bottone a comando, ma l’immagine che viene fornita dai media è opposta. Naturalmente non si può generalizzare nemmeno al contrario (c’è chi non è presente perché non fa nemmeno la fatica di premere il bottone), ma almeno bisogna essere consapevoli del fatto che i numeri rischiano di dire il contrario di quanto si è portati a pensare.

Ci sono poi infinite variabili, che le statistiche non possono evidenziare ma che chi le pubblica dovrebbe spiegare. Vediamone alcune.

I rapporti col territorio, elemento essenziale della rappresentanza, sono stati uccisi dall’infame legge elettorale che ha attribuito a pochi leader il compito di tirare il carro del consenso e ha messo gli altri nella comoda posizione di farsi trascinare. Chi ha un mandato “territoriale”, sul territorio deve anche starci, mentre chi è in Parlamento al traino di liste bloccate o per grazia del leader si può godere lunghi weekend romani e essere più presente.

Per la qualità del lavoro è più importante essere presenti nelle commissioni, dove c’è quel poco che resta del senso del lavoro parlamentare – e le cui sedute guarda caso non sono pubbliche. Quando un provvedimento arriva in aula è già tutto deciso e spesso le sedute sono tristi perdite di tempo.

Ancora, fa molta differenza se un parlamentare è di maggioranza o di opposizione. La maggioranza deve stare in aula e perdere meno voti possibile, specie quando la legislazione è approvata a colpi di fiducia. L’opposizione è assai più libera. Fa poi differenza se si sta in un gruppo grande o piccolo (il primo è più in grado di assorbire le assenze) e se il gruppo è politicamente disciplinato o più libero.

Guardando le statistiche, anche quelle dei parlamentari locali, si potrebbe pensare che i deputati lavorino meno dei senatori. Ovviamente non è vero. Il motivo del dato è semplicissimo: alla Camera la maggioranza è schiacciante e il singolo voto non fa una gran differenza. In Senato invece la maggioranza è molto risicata, e quindi è più difficile mancare.

C’è anche il gioco delle missioni. Chi è esperto e “ben inserito” riesce a figurare in missione più facilmente di chi è inesperto, perché la missione è concessa dal Presidente dell’assemblea. Io, ad esempio, ci ho messo un pochino a capire che per le sedute delle commissioni paritetiche dei 6 e dei 12 è possibile chiedere la missione, e qualche voto per questo l’ho perso. Ma è decisamente più importante partecipare alla paritetica che a un voto in aula.

Infine, i numeri non possono spiegare la diversa importanza dei voti. Che non sono tutti uguali. Un voto di fiducia è assai più importante del voto su un emendamento approvato o bocciato a larghissima maggioranza, dove il singolo voto non conta nulla. Ma per la statistica è lo stesso. E in una giornata si possono votare anche 800 emendamenti inutili (ricordate quelli che volevano ridenominare la Camera in “Duma di Stato”?) e in un’altra una legge importante, ma mancare la prima volta pesa molto nelle statistiche e la seconda quasi nulla, mentre guardando l’importanza il rapporto si inverte.

Più interessante delle presenze è l’indice di produttività, che misura la quantità di proposte ed emendamenti accolti. Ovviamente anche qui i numeri da soli non dicono nulla. E’ chiaro che chi sta all’opposizione ha pochissime possibilità di far passare qualcosa. E per questo magari si sfoga presentando moltissimi disegni di legge e emendamenti (così sale in quella classifica, compensando la bassa incidenza). Mentre chi è in maggioranza magari nei piccoli gruppi che sostengono il governo, ha un peso politico molto maggiore che fa salire il grado di produttività.

Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Il punto è però semplicissimo. I numeri sono multo utili, ma vanno contestualizzati e capiti. Altrimenti producono l’eterogenesi del fine: raccolti per offrire uno strumento aggiuntivo di valutazione dei parlamentari, finiscono per dare informazioni sbagliate e per gettare discredito in modo generalizzato. Senza distinguere e creando ulteriore confusione. Anche in parlamento, come in ogni ambiente di lavoro, c’è chi è più o meno bravo, più o meno esperto, più o meno onesto, più o meno impegnato, più o meno efficace. Ma queste caratteristiche si misurano poco o nulla con queste statistiche. Che servono eccome, a patto di essere adeguatamente spiegate. Altrimenti fanno solo danni.

p.s. scommetto che non mancherà qualche commento che dica più o meno che “sono tutti ladri, inutili, fannulloni e rubano lo stipendio”. O che lo sono io che ho osato relativizzare i dati per chissà quale interesse. Vorrà dire che l’eterogenesi del fine è già compiuta e che non basta certo un post su un sito di provincia a invertire la rotta. Ma se anche solo un lettore ne trarrà degli spunti di riflessione critica, ne sarà valsa la pena.

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Daniele Bolzano Di., 18.11.2014 - 14:36

Il discorso è semplice. Una democrazia è tanto più matura quanto più i cittadini sono in grado di interpretare la complessità delle cose. Mi chiedo però a cosa si può attribuire tanta banalizzazione della realtà. Temo che non sia una questione di qualità dell'informazione ma soprattutto di scarsa educazione civica, terreno fertile per certe mistificazioni.

Di., 18.11.2014 - 14:36 Permalink