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Fiori e diritti

Turni di lavoro spossanti, alto rischio di licenziamento e abusi sessuali: la difficile quotidianità delle donne che lavorano nelle piantagioni di rose nel sud del mondo.

“È il tempo che hai dedicato alla tua rosa che la rende così importante.” Così il Piccolo Principe, nel libro di Saint-Exupery, affidava simbolicamente a una rosa il senso della cura e dedizione alle cose che contano nella vita. Anche per tutti noi la rosa e da sempre l’immagine positive di un amore, di un affetto, di un ricordo. Per tante aziende è solo un business imponente, capace di muovere miliardi di euro l’anno, ma per decine di migliaia di braccianti nel sud del mondo quella stessa rosa ha un valore diverso.

A lavorare sono soprattutto le donne, che vengono licenziate in tronco se in gravidanza, e che spesso devono subire abusi sessuali. Sono riuscito a incontrare Margot una domenica pomeriggio, in una palestra che ospita una riunione organizzata dal sindacato Fenacle con una trentina di lavoratori di una piantagione di rose in Ecuador. Mi racconta dei suoi 11 anni in serra, dei suoi due figli e del suo lavoro: turni di lavoro massacranti, soprattutto in vicinanza dei periodi di picco del mercato (San Valentino, la festa della Mamma, Natale), il contatto con prodotti chimici che le hanno rovinato la pelle del volto, un senso di affanno che le fa temere quella malattia ai polmoni così comune a coloro che respirano ciò che altri lavoratori sono costretti a irrorare nelle serre. Accetta di farsi fotografare con pudore, coprendosi in parte il viso con la mano.

Mi ricorda il volto di Mary, incontrata in Kenya alcuni mesi prima. Anche lei donna sola con figli, senza un contratto formale che le potesse un giorno garantire la copertura sanitaria o la pensione. Si guadagnava di che vivere lottando quotidianamente contro le pretese sessuali di un caporeparto da cui dipendeva la sussistenza di centinaia di donne come lei. Vite difficili, diremmo noi con un eufemismo che potrebbe offenderle, se ci sentissero.


Piu di tre miliardi di rose l’anno

Non credo che rimarrebbero impressionate dai numeri resi disponibili dal Ministero degli affari esteri olandese: un miliardo di euro di fiori importati ogni anno in Europa dai cosiddetti “paesi in via di sviluppo”; un centro logistico e commerciale in Olanda, capace di controllare un mercato florovivaistico che vale 60 miliardi di euro al dettaglio; oltre tre miliardi e mezzo di rose passate attraverso le aste olandesi nel solo 2013, che equivalgono a un terzo di tutti i fiori importati. Sono numeri importanti, posti di lavoro per centinaia di migliaia di persone (da 70 a 90 mila braccianti solo in Kenya), come mi ripetono gli investitori esteri che ho incontrato. Questo è vero, ma quello che tendono a dimenticare sono le drammatiche conseguenze della produzione intensiva in questi ultimi trent’anni. Sulle persone e sull’ambiente. Andate a leggervi il recente report del “Kenya Human Rights Commission” sulle condizioni di lavoro delle braccianti nelle piantagioni di fiori. Ci sono dei miglioramenti concreti rispetto a dieci anni fa, questo va riconosciuto, ma tuttora metà delle donne intervistate dichiara di subire soprusi sessuali nelle serre, ritorsioni nei confronti di chi si affilia a un sindacato, licenziamenti in caso di maternità e di ricevere un salario inferiore ai due euro al giorno. Va diretto al cuore del problema anche David Njagi, giornalista dell’Inter Press Service, nel suo articolo di denuncia sui danni alla salute causati dall’esposizione ai prodotti chimici in serra studiati dal “Kenya Medical Research Institute” (KEMRI): insufficienze respiratorie, tumori, sterilità. Davvero trope spine in quelle rose. Neppure l’ambiente ci guadagna. L’organizzazione canadese “Food and Water” ha studiato l’impatto delle piantagioni ai danni del lago Naivasha in Kenya: troppa acqua consumata (da 7 a 13 litri per ogni rosa), troppi pesticidi inquinanti nel bacino, accesso quasi inesistente per le comunità locali abituate per decenni a usufruire del lago per la pastorizia e per le loro necessità. Anni di denunce e campagne internazionali da parte delle Ong e delle associazioni di consumatori hanno messo in discussione il business dei fiori, soprattutto in Kenya, dove il “Kenya Flowers Council” – ente di rappresentanza dei principali proprietari di serre – ha realizzato un proprio standard di certificazione per riacquistare credibilità agli occhi del consumatore e della consumatrice europei. Mentre numerose aziende hanno spostato la produzione in Etiopia, dove l’estensione delle piantagioni è cresciuta a un ritmo del 40% negli ultimi quattro anni, ma dove il costo del lavoro è tra i più bassi di tutta l’Africa, altre aziende, appartenenti al “Kenya Flowers Council”, sono effettivamente intervenute sugli aspetti ambientali e sulle condizioni di lavoro, garantendo ai braccianti gli indumenti di protezione e verificando il rispetto degli orari di rientro in serra dopo l’uso dei prodotti chimici. Ma allora, quali possibilità ha il consumatore etico che desidera regalare o regalarsi un fiore?

Il Fairtrade ha attivato anche in Italia la distribuzione di rose certificate, in alcune catene della grande distribuzione e nei negozi di fiori, tuttora preferiti dai consumatori italiani per questo acquisto. In Alto Adige, secondo dati raccolti dall’oew, esistono alcuni dettaglianti che garantiscono la tracciabilità dei fiori (vedi box a lato).

Altre certificazioni hanno cercato di rendersi visibili e acquisire spazio nel mercato, il “Flower Label Program” (FLP) in Germania e il “Fair Flowers Fair Plants” (FFP) in Olanda, per esempio, ma hanno dovuto fare i conti con la potente lobby delle aste olandesi e dei distributori e sospendere le proprie campagne di sensibilizzazione. Nel frattempo è nata la “Flowers Sustainable Initiative” (FSI), un’iniziativa avviata dai commercianti olandesi con il supporto dell’ente di certificazione MPS.

Non è tuttora facile, per un consumatore etico soddisfare le proprie aspettative nel settore della floricultura, ma è comunque importante mantenere viva l’attenzione su questa problematica e chiedere ai soggetti che operano nel mercato di garantire la provenienza dei loro prodotti. Come ci direbbe il Piccolo Principe di Saint- Exupéry: “Se non conosci la storia di quella rosa, come fai a destinarla a un amore, a un affetto, a un ricordo?”

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Questo articolo, a cura di Cristiano Calvi, è tratto dal numero di gennaio 2016 del giornale di strada zebra.