Wirtschaft | Federalismo

“Diversità di preferenze spingono al separatismo”

A Brunico un workshop sul federalismo e lo sviluppo locale secondo la “political economy”. Ne parla l'organizzatore Federico Boffa, docente presso l'unibz.
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salto.bz: Prof. Boffa, ci può inquadrare l'argomento del “First Bruneck workshop” dal titolo “The Political Economy of Federalism and Local Development” che si terrà domani e dopodomani presso la sede di Brunico della Libera Università di Bolzano?
Federico BoffaSi tratta di un'iniziativa sul tema della political economy, quella branca dell'analisi economica che tratta dell'impatto della politica – quindi delle scelte politiche – sull'economia, ovvero del processo con cui sostanzialmente le politiche si vengono a formare. In generale, è vero che l'economia cerca da una parte di capire quali siano le politiche ottimali, quelle più giuste per ogni situazione, però dall'altra parte un aspetto dell'analisi economica è quello di comprendere come le politiche vengono realizzate all'atto pratico, cioè qual è il processo decisionale che porta alla realizzazione delle politiche. Questa è una parte importante dell'analisi della political economy.

Perché è stato scelto il tema “sviluppo locale e federalismo”?
Il focus è sullo sviluppo locale e federalismo, analizzando le determinanti del processo e dell'azione politica che portano a definire certi tipi di politiche, specialmente nei rami del federalismo e dello sviluppo locale. Un paio di paper sono legati al partisan alignment, cioè se l'essere un governo locale dello stesso colore politico rispetto al governo centrale porti tale amministrazione locale ad avere più fondi pubblici, rispetto a un altro governo locale che non è allineato col governo centrale, di colore diverso. Oppure, come incide sulle diverse politiche la relazione fra governo nazionale e governo locale, ad esempio se un parlamentare proviene da una certa zona? Quella zona sarà favorita nel ricevere fondi pubblici? Altro tema legato al federalismo e alla political economy, è se i governi locali gestiscano meglio il ciclo economico. In generale, si ritiene che un governo centrale o locale sappia gestire il ciclo economico quando fa da “cuscinetto”, onde evitare troppe oscillazioni: se c'è un momento di espansione cerca di interviene in modo espansivo, spendendo di più e tagliando le tasse, e tira la cinghia quando invece si è in fase di recessione. La nostra analisi va a guardare se i governi locali fanno meglio o peggio dei governi centrali. La political economy, in questo caso particolare sul federalismo, non guarda tanto all'aspetto normativo, di come si dovrebbe fare, ma cosa effettivamente è successo all'atto pratico di formazione delle politiche. L'obiettivo successivo è pensare a regole che indirizzino nella direzione migliore. Se in certi contesti i politici federali fanno meglio dei colleghi nazionali, mentre in altri accade il contrario, allora si tenterà di federalizzare o centralizzare l'impianto delle costituzioni a seconda delle circostanze.

In altre parole, conta la qualità della classe politica.
Certo. Altro interrogativo della political economy è cosa accade quando s'impongono limiti al numero di mandati del politico centrale o locale, che sia il sindaco o il presidente del consiglio. Politici al terzo mandato possono fare meglio rispetto a quelli al primo, oppure peggio: sono elementi che vanno in una direzione piuttosto che in un'altra, perché ogni politico è fatto a modo suo. Però anche i politici reagiscono agli incentivi come tutti gli esseri umani, perciò nell'eterogeneità dei diversi politici ci sono delle regole che funzionano meglio e altre che funzionano peggio. Quindi in certi contesti dove è consentito tenere diciotto mandati c'è più corruzione, mentre in altri pur non essendoci limite non c'è corruzione, bensì continuità, e il politico diventa più esperto. Dipende molto dal capitale sociale: dov'è minore il capitale sociale conviene limitare il numero di mandati per evitare il politico diventi tutt'uno con il sistema, creando contatti che sostanzialmente precludono l'accesso ad altri.

Qual è lo stato della ricerca in Italia?
Molti italiani si occupano di political economy, specialmente al di fuori dell'Italia: Alberto Alesina per esempio insegna ad Harward, Massimo Morelli è tornato in Bocconi dopo un periodo alla Columbia University, e sarà uno dei co-organizzatori del workshop. Lo stesso Tabellini, che è stato rettore della Bocconi, aveva questo filone di ricerca. In effetti, l'Italia è un paese in cui si nota proprio che la politica non sempre fa quanto ci si aspetterebbe. Altro input della political economy è la situazione in cui un politico che “cerca di fare” poi non viene rieletto, perché i cittadini vogliono altro oppure per qualche motivo sono più convincibili dalla campagna elettorale: ciò dimostra quanto conti davvero l'opinione pubblica. Ulteriore oggetto di studio della political economy è come l'opinione pubblica influenzi le scelte elettorali, ovvero la capacità degli elettori di monitorare i politici e di comprendere se agiscono (oppure no) nell'interesse della nazione.

A proposito invece di rapporto tra poteri locali e poteri centrali, il Sudtirolo è un territorio dotato di una larga autonomia di competenze rispetto alla dimensione nazionale, tutt'al più negli ambiti d'investimento. La convinzione secondo cui “qui tutto funziona meglio” è fondata?
Il federalismo funziona bene quando vi sono regioni che hanno grandi diversità fra loro dal punto di vista delle preferenze. In Sudtirolo, lingua e bilinguismo le rappresentano, e in genere la letteratura sostiene che il federalismo abbia senso quando c'è questa diversità di preferenze, mentre lo ha meno quando le preferenze sono molto simili, e persino quando le preferenze sono simili ma il livello di qualità del governo è diverso. Vi sono zone in cui capitale sociale è basso e che non riescono a controllare i propri politici, liberi di fare le loro cosiddette “porcherie”; per tali aree fa la differenza essere insieme ad altre che hanno preferenze simili – cioè vogliono le stesse cose, ad esempio sanità ed educazione pubblica, ma libertà d'impresa – ma hanno capacità molto diverse nel controllare i propri politici e l'azione di governo, ovvero di fare in modo che i politici perseguano ciò che gli elettori chiedono – e questo dipende da quanto le persone leggono, dalla qualità dell'informazione, da quanto ci si fida di ciò degli esperti, piuttosto che dell'esperienza dei propri vicini di casa. Il governo centrale fa sì che le zone “più brave” a controllare i politici controllino anche le meno brave. Si tratta di un controllo reciproco, e di una sorta di delega del controllo: in molti paesi eterogenei – e l'Italia è uno di questi – c'è molta differenza nella capacità di controllare i politici nel loro operato, e in effetti si può affermare che il governo centrale sia una media tra i governi locali, e non è da escludere a priori che in questi paesi possa avere più senso un governo centrale forte.

Quindi perché il Sudtirolo è differente?
Il Sudtirolo è diverso perché vi è proprio una diversità di base, linguistica, e prevale l'aspetto delle diversità delle preferenze, cosa la popolazione vuole dallo Stato, diverso rispetto a quanto desiderano nel resto d'Italia. In tal caso si può affermare che l'Autonomia e il federalismo abbiano un senso; forse meno se le regioni sono molto simili in quello che richiedono allo stato centrale. Centralizzare ha i benefici tipici delle economie di scala: uno stesso provvedimento preso una sola volta è migliore rispetto a uno replicato cento volte. Di contro c'è che il politico locale conosce meglio il suo territorio. Ciò vale pressoché sempre, mentre le differenze in capacità di monitorare e nelle preferenze sono situazioni specifiche che vanno valutate caso per caso.

Federalismo” evoca il potere delle regioni, che sarà anche oggetto del (quasi) imminente referendum costituzionale in Italia. Ma in Europa, più che al federalismo, vi sono tendenze al separatismo: quando la diversità è troppa, tanto vale “rompere” con un potere centrale?
Sì, esatto. Se la diversità di preferenze è tanta, si può sostenere che convenga separarsi completamente. C'è sempre una specie di tensione tra la diversità di preferenze. Per esempio, se si guarda alla Brexit, la Gran Bretagna ha preferenze molto diverse dall'Europa. Però la stranezza della Brexit che molte analisi hanno rilevato, è che le diversità maggiori dell'Inghilterra rispetto al resto dell'Europa risiedevano in Londra, dove incide l'immigrazione e un'occupazioni professionalmente molto appagante ad esempio nella finanza, mentre nel resto del Regno Unito prevalgono i settori manifatturieri e agricoli, molto più simili al resto dell'Europa di quanto non lo fosse Londra. Eppure paradossalmente è stata Londra la più favorevole a restare in Europa, mentre le altre zone più simili all'UE sono state più favorevoli all'uscita. Può darsi abbiano prevalso questioni politiche in senso stretto, quali le campagne elettorali. Alcuni parlano di “populismi”, ma anche il populismo è un'espressione che la political economy studia: populismo o non populismo, i politici sono tenuti a fare in parte ciò che gli elettori chiedono loro. D'altro canto credo sia giusto svolgere referendum su determinate questioni: a volte si sceglie male, in maniera magari poco informata, ma se crediamo nella democrazia queste decisioni vanno prese dai cittadini, con tutti i rischi che ciò comporta. La Brexit è un caso strano nel quale è prevalso l'aspetto populistico, ma nonostante si paventassero enormi problemi, per ora non si sono ancora manifestati. Non sappiamo cosa succederà, perché nessuno sa cosa comporti la Brexit: si può uscire formalmente dall'Unione europea mantenendo i trattati in piedi, e quindi di fatto sarà una differenza assai minima, anche perché l'UK non è nella zona euro. L'uscita da una moneta è tutt'altra cosa.

Il populismo è un'espressione che la political economy studia: populismo o non populismo, i politici sono tenuti a fare in parte ciò che gli elettori chiedono loro. Credo sia giusto svolgere referendum su determinate questioni: a volte si sceglie male, in maniera magari poco informata, ma se crediamo nella democrazia queste decisioni vanno prese dai cittadini, con tutti i rischi che ciò comporta. 

La political economy affronta un argomento alquanto spinoso come la secessione, ma da una prospettiva non strettamente politica, bensì più “laica”...
Massimo Morelli parlerà delle secessioni e di che cosa le provoca: quali sono le determinanti di queste secessioni, quali sono gli aspetti che le incentivano, ciò che invece le rende più complicate. Alla fine queste tendenze sono sempre le medesime. La political economy è ampia, quindi tratta un po' di tutto: teoria, casi studio, analisi su big data. In questo caso, abbiamo scelto di occuparci di casi studio, cioè analisi empiriche fatte su dati specifici, per esempio l'analisi relativa alla differenza di gestione del ciclo fra stato centrale e governi locali eseguita su dati spagnoli, oppure l'analisi del partisan alignment su dati indiani e dati brasiliani. Un altro paper studia con dati delle Filippine se a una famiglia con molte conoscenze e molti legami – utilizzando una misura dei legami nella società – siano indirizzati o meno più fondi pubblici. E in effetti s'indirizzano molto più fondi pubblici e molti più favori e permessi di costruire alle famiglie che hanno più network, più link all'interno al sistema, e ciò si può constatare con dati empirici. Sarebbe interessante fare la stessa analisi applicandola ai social network, se chi ha più link riceve più fondi pubblici e più preferenze da parte del governo centrale. D'altronde accade già così nel settore privato: chi ha molti link ed ha “seguito”, ha più possibilità di essere sponsorizzato. Probabile valga pure nel pubblico: si ricevono più favori se si è in grado d'influenzare l'opinione di più persone.

Di cosa tratta il paper dal titolo “Capital Cities, Conflict and Misgovernance”?
Riguarda le capitali: empiricamente è dimostrato ad es. che una capitale isolata, lontana dal resto del paese, ha più corruzione rispetto alle capitali centrali, perché la stampa locale non raggiunge tutto il paese e quindi i politici sono molto meno controllabili, mentre in una capitale centrale ciò che si fa al centro si riverbera sull'intero paese, perché la stampa e l'informazione sono sul posto, e quindi c'è più controllo. Anche i movimenti di insurrezione sono più frequenti nelle città isolate, ma forse questo è più intuitivo.

Quale sarà l'argomento del keynote speech di Bård Harstad dell'Università di Oslo?
Sarà sui trattati internazionali. Essi rischiano di essere deboli per una mera questione elettorale: se chi li sottoscrive sa di essere al potere nel momento in cui entreranno in vigore, ha timore di firmare un trattato che richieda troppi sforzi, perché se gli obiettivi non saranno rispettati dal paese esso sarà punito, e gli elettori puniranno il governo di quel paese. Empiricamente si dimostra, e forse è ovvio a posteriori, che i governi in scadenza consapevoli di non essere rieletti, per limite di mandati del presidente o per sondaggi sfavorevoli, firmano trattati molto più stringenti e con molti più obblighi per il proprio paese rispetto al paese che ha un governo in procinto di essere rieletto. Sono questioni che hanno un nesso con l'incentivo al politico, alla classe politica, che sono anche incentivi umani: la natura umana applicata al politico.

Il workshop è aperto al pubblico e si terrà in lingua inglese domani e dopodomani, 13 e 14 settembrepresso la sede di Brunico della Libera Università di Bolzano.