Kultur | Cinema

“Mia madre” o dell’inadeguatezza morettiana

Esce nelle sale il nuovo film di Nanni Moretti. Ecco perché sarebbe un peccato perderselo.

Chi non ama il cinema di Nanni Moretti lo fa sostanzialmente per un motivo: il “morettismo”. Mettere dentro ai film, in maniera leziosamente ricorrente, con un narcisismo grandangolare, la propria vita personale e professionale può non costituire la massima aspirazione spettatoriale. Chi invece ama il cinema di Nanni Moretti - ma piuttosto chi ama il cinema in generale - lo fa, se non altro, perché depositario di un certo senso di gratitudine sommesso per un riscatto restituito, una riconoscenza vecchia di quasi 35 anni costruita su una battuta di Michele Apicella, alter ego morettiano, in “Sogni d’oro”:

“Tutti si sentono in diritto, in dovere di parlare di cinema. Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!”

Nanni Moretti torna, a quattro anni dall’atipico “Habemus papam”, nel circolo autobiografico con “Mia madre” (che volerà a Cannes insieme a “Youth di Sorrentino e a “Tale of Talesdi Garrone), un film malinconico, autentico, grandissimo. La storia è quella di una regista (Margherita Buy) che, mentre sta girando un film sul precariato e sulle proteste operaie, assiste nel contempo, insieme al fratello Giovanni (Nanni Moretti), la madre morente (Giulia Lazzarini) in ospedale. Il paragone con “La stanza del figlio” è oziosamente obbligatorio ma in “Mia madre” il dolore non è chiassoso, sponsorizzato, si insinua al contrario negli interstizi di un’intimità raccolta e pudica, attenuato da un’ironia pervasiva (e manierista) scandita soprattutto dal personaggio di John Turturro, un attore italoamericano, pupillo (mancato) di Stanley Kubrick, smemorato e un po’ spaccone, chiamato a interpretare il ruolo di un imprenditore senza scrupoli nel film della Buy. E Margherita Buy nel film è la versione femminile di Moretti, con le stesse, peculiari nevrosi implosive, ossessioni, inadeguatezze, che dà le stesse indicazioni – “voglio vedere l’attore accanto al personaggio” – che il regista snocciola di consueto ai suoi attori sul set.  

Qualche anno fa, quattro per la precisione, andai a vedere all’Auditorium di Roma, Moretti che interpretava alcuni monologhi dei suoi film accompagnati dal vivo dall’orchestra diretta da Franco Piersanti, uno dei suoi fedeli compositori. A fine serata il regista lesse alcuni passaggi del suo diario, uno di questi riguardava sua madre, scomparsa durante il montaggio di “Habemus papam”. Moretti confessava un certo rammarico nel constatare come molti ex-alunni della madre, insegnante per anni al liceo Visconti di Roma, avessero intuito e anche carpito qualcosa di lei che a lui era sfuggito (anche questo c’è nel film). Chiuse il diario e restò un momento, una manciata di secondi appena, in un raccoglimento quasi impercettibile prima di proseguire oltre, lasciando il pubblico interdetto e un po’ disarmato di fronte a quell’atto di intima condivisione. Con “Mia madre” Moretti ha dilatato quella manciata di secondi in una dichiarazione di intenti di un’ora e quaranta minuti. Oggi, al contrario di allora, c’è tutto il tempo per sfogliare quel dolore taciturno ed esserne investiti, in modo forse più consapevole, eppure trovandoci ancora, inesorabilmente, indifesi.