Kultur | Storicismi

Architettura, potere e utopia fascista

Ovvero come l’ideologia mussoliniana, geneticamente autorappresentativa, sfruttò piani urbanistici e monumenti per imprimersi nella Storia.

Lo capì molto presto il duce che a costruire asili, scuole, palestre, piscine ci avrebbe guadagnato; avrebbe riposto nella fondina una strategica arma di consenso demagogico. Da una parte, infatti, il regime sottraeva le libertà democratiche, dall’altra tentava di ottenere a tutti i costi il beneplacito del popolo.
Questa, in breve, la tesi di Paolo Nicoloso, docente della facoltà di architettura dell'università degli studi di Trieste, che ha spiegato ieri sera (17 ottobre) - durante una conferenza nell’ambito della mostra “Alto Adige 900”, nella sala di rappresentanza del Comune a Bolzano - la funzione pedagogica dell’architettura, soprattutto dalla seconda metà degli anni ’30 in poi, e cioè nell'arco di tempo in cui si concentra la cosiddetta accelerazione totalitaria, l’invasività totale della politica nella vita sociale e culturale del paese.

Mussolini vuole cambiare antropologicamente gli italiani, educare le masse, e il modello da perseguire è quello dell’“uomo nuovo fascista”, guerriero e dominatore. “Penetrare in ogni casa” sarà uno degli slogan più esemplificativi di questa operazione di fascistizzazione, un processo rigoroso che partirà da quel consenso popolare per trasformarsi in una vera e propria fede. Roma sarà il massimo esempio iconografico dell’ideologia mussoliniana, a tal proposito Ugo Ojetti dirà: “Qui non si fanno case, qui si fa la Storia. Questa architettura deve durare almeno 400 anni”.

Le due maggiori tendenze saranno il razionalismo moderno e il classicismo neo-romano. Mussolini parteciperà attivamente ai progetti, apportando modifiche, interferendo, contraddicendo gli architetti; vuole una città che consegni ai posteri la grandiosità del fascismo. Determinante in questo senso sarà Marcello Piacentini a cui il duce affiderà i lavori di Via della Conciliazione e la faraonica vetrina costituita dall’Expo 42 (mai inaugurata per l'incalzare della guerra) oltre che, naturalmente, il Monumento alla Vittoria di Bolzano.

Un vizio cronico quello dell’autocelebrazione che le arti visive contribuirono ad esaltare, evidentemente più nell’intenzione che nella concreta fattività: gli enormi spazi vuoti delle architetture urbane volutamente solenni, alla fine, non furono in grado di riflettere quella magniloquenza arrogante e perentoria, marchio di fabbrica del pensiero fascista.