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I perché di una bandiera

La polemica sul tricolore esposto il 24 maggio e le ragioni di chi ancor oggi sostiene che dalla grande guerra nacque il popolo italiano.

Il copione si ripete, immutabile, nel tempo. Ogni volta che a Roma qualcuno prende qualche iniziativa dal sapore più o meno patriottico, a Bolzano il barometro si sposta con la lancetta in direzione "tempesta". Avvenne così nel 2011, con le celebrazioni per il centenario dell'unità d'Italia, disertate dalla provincia autonoma, al costo di un incidente diplomatico di non poco conto con il Quirinale. Sembra impossibile che, nella capitale, non si capisca che certe sensibilità, tra Salorno e il Brennero, sono un po' diverse e bisogna tenerne conto, e che  a Bolzano non ci si riesca contemporaneamente ad abituare al fatto che Roma manda in giro le sue circolari senza mettere tra parentesi le dovute eccezioni. Gli unici sinceramente entusiasti, in questi frangenti, sono i nazionalisti delle due parti. D'altronde bisogna capirli. È su questi argomenti che hanno costruito fortune politiche durature e remunerative.

Questa volta, e ci riferiamo alla vicenda del tricolore da esporre, su disposizione del governo, domenica 24 maggio, in occasione del centenario dell'entrata in guerra dell'Italia, la questione si presenta però in modo un po' diverso.
Da  quella burocratica circolare, diramata a Bolzano dalla prefettura, emana uno sgradevole sentore di voluta ambiguità su un argomento che non ne ammetterebbe alcuna.

Tanto per essere chiari: che cosa si vuole ottenere con quell'esposizione della bandiera nazionale? La risposta più  ovvia è che a Roma si intenda celebrare solennemente il secolo passato da quelli dì del maggio 1915, nel quale rotta la neutralità nella quale si era rinchiusa per quasi un anno, l' Italia fece il suo trionfale ingresso nella grande guerra attaccando lo "storico" nemico, nonché alleato sino al giorno prima, l'Austria Ungheria.
Fu una dichiarazione di guerra, imposta ad un Parlamento e ad un'opinione pubblica in larga maggioranza contrari, da un sovrano che vedeva nella guerra una buona medicina contro le tensioni sociali, un piccolo gruppo di ministri e generali, convinti di far bottino a spese di Vienna con una campagna di un paio di mesi e dal frenetico attivismo di un fronte interventista ben foraggiato in ambienti economici esteri e nazionali e sostenuto dalla tambureggiante campagna di stampa guidata da "il Corriere della Sera" di Luigi Albertini.

Il risultato: oltre tre anni di guerra, 600.000 morti, più di un milione di feriti. Una nazione disfatta e impoverita, pronta per un ventennio di dittatura e un'altra guerra ancora più drammatica e devastante.
Verrebbe da domandarsi che cosa mai ci sia da celebrare in tutto questo.

Ce lo spiega, come meglio non si potrebbe, sul Corriere della Sera di mercoledì 20 maggio Pierangelo Buttafuoco, una delle firme più illustri e conosciute della cultura di destra italiana. Per  Buttafuoco non vi è innanzitutto nessun dubbio che l'avvenimento vada ricordato con tutta la solennità possibile, eguale almeno, se non maggiore, a quella che, pochi giorni or sono, ha visto nell'aula della Camera, il ricordo del 70º anniversario della liberazione dal nazifascismo.

La decisione dell'Italia di entrare in guerra va ricordata e celebrata, secondo l'autore, per due fondamentali motivi. Il primo è quello che storicamente è sempre stato considerato prevalente: il completamento del disegno risorgimentale con la liberazione, dall'iniquo giogo austroungarico dei poveri italiani oppressi di Trento e Trieste. È forse il secondo motivo, tuttavia, quello più interessante da considerare. Secondo Pierangelo Buttafuoco la guerra ebbe il grande merito di fungere da fattore di aggregazione e unità di un popolo italiano che fino a quel momento, a mezzo secolo dall'unità politica, era rimasto chiuso e diviso nelle tante e diverse identità locali. Il conflitto, dunque, come una sorta di grande miscelatore nel quale furono gettati alla rinfusa sardi e siciliani, lucani i calabresi, toscani e romagnoli e dal quale uscirono, nel novembre del 1918, i primi veri italiani.
Una ricetta inquietante, sui cui risultati e sulla cui efficacia ci sarebbe molto da discutere, se non altro perché quando, nel 1861, Camillo Benso conte di Cavour disse "l'Italia è fatta ora bisogna fare gli italiani" pensava probabilmente ad una serie di politiche economiche e sociali e culturali da attuare nei decenni successivi e non ad uno spaventoso massacro. Non immaginava che tra i suoi successori ci sarebbero stati entusiastici assertori della guerra come "levatrice della storia".

Sono passati cent'anni ma quel pensiero non si è evidentemente modificato di un millimetro neppure di fronte agli orrori che nel cosiddetto "secolo breve" la grande guerra ha provocato.

E siamo qui, alla vigilia del 24 maggio 2015, a sentirci chiedere di celebrare con spirito patriottico quegli avvenimenti, quei giorni, quelle scelte.
A questo punto non è più questione di esser italiani o tedeschi, di avere nel proprio album di famiglia la foto di un bisnonno in divisa austroungarica o con il cappello d'alpino. Questa volta l'identità nazionale non c'entra nulla. L'immagine evocata dal presidente della provincia Kompatscher di una bandiera esposta a mezz'asta per ricordare il lutto di una delle peggiori sciagure che abbiano mai colpito l'Europa, è perfettamente calzante.
Per commemorare una tragedia, non per celebrare un fausto evento.

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Guido Gentilli Fr., 22.05.2015 - 09:45

Bell'articolo, complimenti.
Sono contro all'esposizione del tricolore in un'occasione come questa a Bolzano come a Catanzaro. Spero che l'esempio dell'Alto Adige (e del Trentino che esporrà la bandiera a mezz'asta) sia seguito in tante Regioni!

Fr., 22.05.2015 - 09:45 Permalink
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Palaia Renato Sa., 23.05.2015 - 13:22

Non bisogna dimenticare che la celebrazione storica della prima guerra mondiale è stata gestita totalmente dal fascismo, quindi necessariamente in chiave nazionalistica. Purtroppo la memoria di quel tragico evento è stata condizionata da questo atteggiamento celebrativo anche dopo la fine del ventennio. Alla scuola elementare eravamo costretti a cantare la canzone del Piave con un enfasi patriottica che la maturità ci ha consentito di mettere in discussione come culto fine a se stesso della retorica nazionalistica. Impressiona la posizione assunta da Buttafuoco rispetto ad un evento drammatico, che ha creato per il sudtirolo i presupposti di un conflitto etnico per fortuna ora in sempre più rapido esaurimento. Che la guerra abbia contribuito ad unificare il paese è un'opinione coltivata sempre dalla destra politica, che chiude gli occhi di fronte alle differenze geografiche e culturali enormi che sopravvivono nello stivale. Emerge quindi anche nella questione limitata della "bandiera sì, bandiera no" la carenza culturale degli italiani rispetto alla loro storia, che poi ha riflessi anche sulla vita sociale.

Sa., 23.05.2015 - 13:22 Permalink
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Lucio Giudiceandrea So., 07.06.2015 - 09:46

Ottimo, Maurizio!
Tralasciando le specificità di questo angolo di territorio italiano, mi chiedo: il governo invita a esporre il tricolore perché la pensa come Buttafuoco? O per approssimazione nell'uso dei simboli? O per semplice enfasi? Perché lo fanno?

So., 07.06.2015 - 09:46 Permalink