Gesellschaft | Memory

Al mio amico "vu comprà"

Ho conosciuto il senegalese Abdulah nel 2011, quando facevo la pendolare da Magrè a Bolzano. Un'esperienza da raccontare.
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Anni fa scrissi un pezzo per un mio caro amico senegalese. Da un po' di giorni mi viene in mente che sicuramente sta digiunando. È il mese di Ramadan e ieri l'ho intravisto con il cesto di sempre per le vie di Bolzano sotto il caldo sole di giugno...

                                                                  * * *

Lui mi ricorda Gwynplain, l’Uomo che ride di Hygo. Ha sempre un sorriso scolpito, marcato sulle labbra. Ma diversamente dallo sfortunato Gwynplain, lui gioisce di quel sorriso, è così che emana saggezza e simpatia costante. Devo chiamarlo però con un nome diverso. Almeno fino a che non deciderà lui altrimenti. Non salverò però la sua origine senegalese e i suoi interminabili girovaghi viavai tra i quartieri di Bolzano. La prima volta lo conobbi nel 2011, quando andavo giornalmente per lavoro da Magrè a Bolzano. Alle 6 e 30 di mattina. Lui prendeva il treno a Trento, presumo verso le 5, e io salivo per l'appunto, a Magrè. Mentre andavo in cerca del primo posto libero lo trovavo sempre lì, in uno scompartimento semi vuoto, sempre solo, con le sue borse di merce da vendere, con la testa appoggiata sul vetro, che dormiva. Difficile che qualcuno gli si sedesse accanto. Ogni tanto qualche studente o qualche ragazzino. Ma di solito si accomodava  ritirato con il suo sorriso immancabile. Sempre per caso, mi appariva davanti. Di corsa verso l'uscita della stazione per prendere la mia stessa linea, il numero 3. Scendevamo assieme a Piazza Matteotti. Io sempre una decina di passi più indietro, con le cuffiette nelle orecchie e chissà perché accompagnata sempre dalla stessa canzone di Bob Marley: “Stop the train I'm living” . Intanto potevo codificare il linguaggio del suo corpo, la sua stanchezza già di mattina presto, e osservare da vicino il suo capello colorato. Il destino mi ha portato a conoscerlo e da lì in poi siamo diventati amici. Ogni qual volta passava davanti al mio negozio mi salutava con una mano e io lo ricambiavo dall'interno con un sorriso. Qualche volta abbiamo preso il caffè di mattina, e abbiamo chiacchierato più o meno di cose normali. Non parlava bene l’italiano ma ce la faceva a spiegarsi. Ho saputo che era sposato e aveva tanti figli. Un giorno mentre stavo chiudendo il negozio e lui stava avvicinandosi a me, gli ho chiesto se fosse andato in Senegal di recente. Mi disse di sì. Che aveva trovato tutto a posto, e che le mogli e i figli stavano tutti bene. Impreparata rimasi stupita, e scoppiai a ridere. Più in là, un italiano di circa 40 anni, alto, con gli occhiali da sole leggermente abbassati sul naso per vedere meglio la merce esposta nel negozio vicino, aveva visibilmente alzato le orecchie. Si vedeva chiaramente che intendeva sentire tutto il discorso senza dare nell’occhio. Sussurrai al mio amico:

- "Ma quante mogli hai?"
- "Quattro!", rispose spensieratamente a voce alta.

L’italiano curioso con gli occhiali da sole leggermente in giù e con le orecchie alzate, si lasciò scappare a voce alta:
- "Quattro mogli! E bella madonna, però! Robe da pazzi!"

Il mio amico senegalese è anche un praticante della sua religione. E con tutte le difficoltà di strisciare per Trento e Bolzano, digiuna senza farlo capire a nessuno. Ma io lo so perché tra noi ci parliamo. Uno di quei giorni, lo vidi seduto su di una sedia appartata fuori da un bar. Da lontano sembrava come se stesse contemplando le cime dei pioppi. Aveva in testa il cappello di sempre, quello di paglia, tipo Panama, e sembrava che sorridesse. Mi ci sono avvicinata per fargli gli auguri di Ramadan, ma a poca distanza capii che stava dormendo. Sicuramente il digiuno durante l’estate è pesante, e lui stava prendendo sonno sotto il sole bruciante d'agosto, con la testa in su. Era da tanto tempo che volevo intervistarlo. Avevo deciso già il titolo nella mia mente. ”Il Ramadan del mio amico ….!”. Così un giorno gli chiesi di passare presso il mio negozio, e invece che salutarmi da fuori, di entrare. E così fu. Entrò con le sue borse e cesti assieme a mille oggetti da vendere. Ovviamente con il suo sorriso, i suoi capelli brizzolati tagliati corti. Lo feci sedere, cosicché poteva riposare un po'. In seguito con poche parole gli spiegai cosa volevo da lui. L’intenzione di scrivere della sua vita, dei suoi figli in Senegal, del suo paesino di nascita, costumi, modo di vivere, il festeggiare assieme ai compaesani. Anche dei suoi piedi che gli facevano male quando tornava verso le 10 di sera a Trento e della sua malattia che ultimamente gli impediva di camminare a lungo. In fondo, non era giovane, aveva incirca 66 anni anche se ne dimostrava 50. Percepii immediatamente che si sentì male. Pose la mano sopra la fronte e la massaggiò con nervosismo.                                                                                                                                   

Poi  rispose:
- "Io non voglio... non intervista, no foto mia! Perché sotto altri scrivere per me: ”poverino, negro, vucumprà”. Io non volere  pietà… brava persona io…"

Sentii un crampo al cuore e gli dissi:
- "Stai tranquillo, non sei costretto a raccontarmi niente se non vuoi. Pensaci. Intanto io scriverò qualcosa senza foto e senza nome. Tu, se cambi idea, passi da me. Ok? Tranquillo".

Se ne andò di fretta, tirando a sé a fatica le borse, visibilmente preoccupato. È da un mese che non passa più di fronte al mio negozio. Se passa lo fa velocemente, senza girare la testa per salutarmi. Come se si sentisse in colpa di non avermi ricambiato l'amicizia. Ma non sa del mio forte senso di colpa, del mio timore di aver perso un amico buono, bravo e paterno. Se vi capita di vedere per strada una persona come lui, un “vucumprà” con le borse piene, tirando i piedi, stanco, con un cappello in testa e lo sguardo abbassato e discreto, regalategli un sorriso. Potrebbe sicuramente non essere lui, ma è come se fosse lui. Sono quasi tutti così. Tranquilli, stanchi, sorridenti e orgogliosi. Un giorno, appena lo vedrò, lo fermerò per strada, lo inviterò per un caffè e gli spiegherò tutto e meglio. Lo farò scusandomi per la leggerezza di avergli chiesto di affidarmi la sua vita sforzandomi di non scoppiare in lacrime per il dispiacere e la vergogna. Mi sforzerò di fare quello che mi consiglia Bob Marley: No woman no cry

                                                                       * * *

Mesi dopo, come mi ero promessa, lo fermai per strada e bevemmo un caffe. Un anno fa, dopo il suo ritorno da Senegal mi portò un regalo dalla sua ultima moglie. Era una foto in cui una bellissima donna seduta mi sorrideva. Aveva addosso un stupendo vestito di seta color arancione, e sui capelli una sciarpa gialla e rossa. Appena sono entrata a casa, l'ho inserita nell'angolo della cornice di un mio dipinto preferito, una ballerina sulla sedia. Tempo dopo, di colpo, il vetro del dipinto è andato in pezzi. Ma nell'angolo della cornice c'è sempre lo sguardo fresco della moglie piu giovane del mio amico senegalese. Lui, il 21 giugno scorso era al sedicesimo giorno di digiuno, aveva in testa un cappello di paglia color rosa e camminava come un orso vecchio in pace con l'universo. Si chiama Abdulah ed è una bella persona.