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BAF BolzanoBozen Architecture Festival

Quattro giorni di mostre, dibattiti, workshop hanno contraddistinto questa nuova tessera nel mosaico del panorama culturale cittadino.

Giulia Motta Zanin, Marco D’Ambrogio, Michele Degiorgis, Matteo Graziosi; quattro amici bolzanini che portano le loro idee e il frutto delle proprie esperienze formative alla città. Amici storici conosciutisi al bar, circa sei mesi fa ideano un concorso alternativo di architettura. Spunto, tra gli altri, le battaglie sugli interventi di trasformazione che hanno polarizzato i Bolzanini. L’intenzione era quella di ampliare il discorso dicotomico sì|no favorendo la diffusione della cultura architettonica, urbanistica. Persone non addette ai lavori non hanno necessariamente un metro di paragone per valutare una proposta di trasformazione urbana e sono, a volte, in balia di banditori politici. Tassello dopo tassello l’idea iniziale del concorso ha mutato forma per prendere i connotati del festival BAF. Sin dal principio gli ideatori non hanno pensato a un evento di nicchia “da architetti per architetti”, bensì a una serie di attività e mostre a carattere interdisciplinare con l’intento di presentare la complessità del mondo che ruota attorno alle questioni riguardanti lo spazio e il costruito. “Una persona incontra concretamente design, architettura, pianificazione urbana tutti i giorni, banalmente camminando per la citta.” * Il Titolo meanwhile si riferisce alla provvisorietà, la temporaneità di certi fenomeni spaziali. Possono essere vuoti urbani inutilizzati che prendono vita perché concessi in uso alla popolazione; esiste inoltre anche l’architettura a tempo limitato (happening) dove la gente si incontra e crea comunità.

L’opera Laternenanzünder-unendliche Sonnenuntergänge del duo wir sind plural, Tobias Furtschegger e Thomas Mühlberger, indaga il rapporto tra tempo, spazio e nuove tecnologie. Spunto è stata la figura dell’uomo incaricato ad accendere le lanterne in perenne lotta contro il tempo che compare nel celebre Il piccolo Principe di Saint-Exupèry. Entrando negli spazi di un negozio dismesso in via della Mostra ci troviamo di fronte a un ordinato puzzle composto da 24x4 immagini. Vediamo le riprese, nell’arco di 24 ore, di quattro webcam per ognuno dei 24 fusi orari del pianeta. Al centro della stanza un timone temporale ci consente di spostare in avanti e indietro le lancette dell’orologio del mondo e vedere come allo scorrere del tempo cambiano i 96 luoghi ripresi. La retina è infatuata dal gioco di immagini, alla mente si affacciano domande quali, ma un luogo è definito da quello che vi succede o avviene qualcosa solo perché c’è un luogo pronto ad accogliere gli avvenimenti? A contrasto di queste riflessioni le foto di aree naturali e incontaminate ci ricordano il pacato scorrere del tempo in zone non antropizzate, lì la notte è buia. L’opera fa parte di una ricerca più ampia chiamata Zeit ist Held, gioco di parole con “Zeit ist Geld” (il tempo è denaro), nata con l’intento di indagare il rapporto tra persone e tempo. Nelle nostre vite siamo passati dalla ciclicità legata alla stagionalità del mondo che vigeva fino a circa 200 anni fa all’era dominata dall’orologio, invenzione di John Harrison. I Britannici dell’epoca avevano bisogno di misurare precisamente il tempo per controllare il loro vasto impero marino – non è possibile determinare precisamente la longitudine senza un orologio (di queste vicende narra anche L’isola del giorno prima di Umberto Eco). Sorge la domanda: chi è, oggi, l’eroe del tempo? Chi domina spazio e tempo, o siamo invece noi a esserne dominati?

Wir sind plural si sono occupati dell’intero layout grafico e del sito internet del BAF, hanno progettato le piramidi sparse per il centro della città di fronte ai siti in cui si sono svolte le attività del festival.

Il Workshop 120.000 Beaver tails-code di castoro è stato ideato dall’architetto Alvise Giacomazzi e da Alessandro Bellinato. Fonte di ispirazione sono state le 120.000 tegole smaltate che ricoprono il tetto del Duomo di Bolzano, icona della città. Partendo dalla semplice forma delle tegole alcune classi degli istituti Dante e Chini hanno creato collages su foto di Bolzano. Giacomazzi, insieme al senato degli studenti dello IUAV, ha ideato la grande bolla gonfiabile The pill of Benjamin, un omaggio al testo Angelus Novus di W.Benjamin. Il container fatto di aria, per definizione temporaneo è, tuttavia, generatore di spazio e quindi luogo di incontro.

Il Brissinese di adozione Moussa Saouidrissa, esperto nel recupero di pallet monouso, ha istruito (con la partecipazione di VKE) i partecipanti dei workshop nel creare mobili e arredi urbani di riciclo.

Con la sua conferenza-talk Bas Princen, fotografo di architettura, designer, artista visivo e spaziale, ci ha condotto nel mondo del suo lavoro. E’ tornato ripetutamente su uno dei quesiti che maggiormente lo affascinano: come fa la rappresentazione dello spazio a creare a sua volta uno spazio? In The construction of an image, di prossima pubblicazione -autunno2016, si pone la domanda del perché una determinata immagine diventi importante, iconica. Parlando di “the image in a space” ci presenta il rimando continuo dell’influenza reciproca tra un’architettura fotografata se messa a diretto confronto con la propria rappresentazione su pellicola. Ne sono esempio i suoi lavori per la biennale di architettura di Chicago 2015 o le foto dei frammenti murari mancanti dalle costruzioni della città di Petra. Di alcuni frammenti sono stati fatti dei calchi, a loro volta oggetti spaziali, poi riesposti in opposizione alle fotografie del sito di Petra creando quello che Princen definisce un loop.

Il progetto Portraits from above di Ru Wu e Stefan Canham documenta le costruzioni “abusive” edificate sui tetti delle torri abitative di Hong Kong. L’interesse di Stefan per le architetture spontanee nasce sul finire degli anni ’90 quando, finita l’era squatter, molti alternativi radicali tedeschi decidono di abitare i “Bauwagen”, le roulotte originariamente adibite a ospitare gli operai che lavoravano alla costruzione di grandi progetti architettonici. Da sempre Wu è affascinata dalle case nascoste sui tetti della sua città di origine. Quasi nessuno prima di loro aveva documentato o mappato tale fenomeno. Stefan ha prodotto una serie di fotografie, a colore e in bianco e nero, mentre Wu, partendo da schizzi inziali, ha realizzato planimetrie e assonometrie degli insediamenti. Per localizzare le case “abusive” sono andati alla ricerca delle cassette postali aggiunte a quelle “regolamentari” ai piani terra degli edifici. Spesso le abitazioni hanno carattere provvisorio e quasi sempre sono ricavate da spazi di servizio (ballatoi, vani scale ecc.) e terrazze di copertura. Il paradosso sta nel fatto che molte di queste dimore hanno spazi aperti, grandi più di una decina di metri quadrati, un bene raro in una città ad altissima densità edilizia come Hong Kong. Infine Wu e Stefan ci tengono a precisare che grazie al loro lavoro per la prima volta gli abitanti delle rooftop communities si sono sentiti orgogliosi del luogo in cui abitavano.

Flavio Pintarelli, semiologo bolzanino, per la sua conferenza-talk ha preparato un discorso sull’architettura ostile. Partendo dalla storia della Panchina di Camden -un oggetto di arredo pubblico (un anti oggetto?) disegnato per essere scomodo e quindi disincentivare “i comportamenti antisociali” (dormire all’aperto, nascondere stupefacenti, usare lo sketeboard)- Pintarelli, da bravo semiologo, ci ricorda che termini come “decoro urbano” e “degrado” sono di derivazione militare, è il soldato meritevole a essere decorato con stellette e nastrini. Il discorso prosegue con la storia dello skateboarding. In occasione di una siccità che colpì la California meridionale a metà anni ’70 gli skater, ex surfisti, scoprirono che le superfici stondate e rasate delle piscine vuote erano ottime per praticare loop e tricks. Sono stati proprio gli skater a dimostrare che la camden bench non riesce del tutto a essere ostile, perché, con un po’ di pratica, è possibile skatearci sopra. In sostanza la storia degli skater ci esplica come spesso sono le sottoculture urbane, Pintarelli cita anche il caso del sito Undercroft nella South bank londinese, a riutilizzare spazi abbandonati. Chi vive e usa uno spazio vi lascia un segno e ne definisce l’identità. A chi scrive viene in mente che i parchi cittadini talvolta sono popolati soltanto da persone non originarie delle nostre latitudini, ancora abituate a godere del verde cittadino. Eppure il parco nasce come luogo di svago per tutti gli abitanti delle città, ricordiamo il celebre dipinto Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte di C. Pissarro, in cui i borghesi parigini di fine ‘800 si godono la domenica al parco. Come ricorda Pintarelli è la modalità iperconnessa di un internet sempre più privatizzato a separare noi cittadini l’uno dall’altro. Reimpariamo dalle subculture urbane ad appropriarci degli spazi della città.

I sei esempi narrati sono solo una parte di tutto ciò che è stato il BAF. Filo conduttore è la volontà di raccontare i possibili approcci, i più disparati tra loro, sui temi dello spazio, dell’architettura e dell’abitare la città per incrementare la cultura architettonica a Bolzano.

Il Festival diventerà biennale. A questa edizione tutti hanno lavorato su base volontaria, compresi alcuni richiedenti asilo ospitati presso l’ex Hotel Alpi di via Alto Adige. Importante è stato il sostegno della Fondazione architettura Alto Adige.

A rivederci tra due anni.

* Trascrizione libera di un colloquio con tre dei quattro organizzatori: Giulia, Matteo, Michele.