Politik | Quirinale

Il "silenzioso assentire" di Giovanni Gronchi

I presidenti e noi #5 - Storia di una visita del Capo dello Stato in Alto Adige nel lontano settembre 1956.

Giovanni Gronchi, sia detto con totale franchezza, non è tra quei personaggi che abbiano lasciato un'impronta indelebile nella storia dell'Italia repubblicana. Fece parte di quella generazione di politici dell'area cattolica che scelse di portare il Partito Popolare al governo con il fascismo di Benito Mussolini, salvo pentirsene dopo la crisi seguita all'assassinio di Giacomo Matteotti è finire poco dopo sotto la mannaia delle leggi liberticide volute dal Duce. Come altri di quella generazione, Gronchi riemerge dal buio durante gli ultimi mesi della dittatura e diviene rapidamente uno dei maggiorenti della Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra. Abile nel districarsi dal complicato gioco delle correnti del partito cattolico, nel 1955 riesce a "bruciare" il candidato ufficiale del partito alla presidenza della Repubblica, Cesare Merzagora, ed a salire al Quirinale. Agli italiani di oggi il suo nome evoca, più che complicate alchimie politiche, una strana vicenda legata ad un francobollo, il celeberrimo "Gronchi rosa", emesso in occasione di un suo viaggio istituzionale in America Latina e che dovette essere ritirato per un grave errore di stampa, divenendo così un pezzo pregiato sul mercato filatelico.

Il Giovanni Gronchi che ci interessa, tuttavia, non è quello immortalato su un francobollo, ma quello che a metà del mese di settembre del 1956 decide di compiere una visita ufficiale in Alto Adige. L'occasione è fornita dalla cerimonia di inaugurazione della nona edizione della Fiera internazionale di Bolzano. Nella folta delegazione che lo accompagna spiccano i nomi di ben due ministri, quello dell'interno, Fernando Tambroni, incaricato di tenere il discorso inaugurale per l'apertura della campionaria bolzanina e quello della giustizia, Aldo Moro, cui spetta invece, sempre alla presenza del capo dello Stato, il compito di inaugurare il nuovo palazzo di giustizia, la cui costruzione era iniziata ancora durante il ventennio fascista ma non era stata portata a termine. 

Con una simile parata di cariche e di competenze, l'arrivo a Bolzano del presidente Gronchi e dei ministri si carica inevitabilmente di un profondo significato politico, anche perché il momento non è certo tra i più tranquilli per quanto riguarda la la questione altoatesina. L'epoca è quella, tanto per capirci, nella quale  il fallimento totale della prima autonomia regionale è cosa ormai assodata, ma ancora non si sono poste neppure per sbaglio le premesse per individuare un percorso di uscita dallo scontro frontale. A Bolzano, negli ambienti della Suedtiroler Volkspartei, cresce il peso di coloro che invocano l'adozione di una politica più dura nei confronti di Roma e che pochi mesi dopo eleggeranno alla guida del partito un mutilato di guerra dal carismatico eloquio: Silvius Magnago. A Roma è sempre più forte la corrente di un centralismo nazionalista che ha mal digerito, nel 1946, l'accordo di Parigi siglato da de Gasperi  e Gruber, che ha dato man forte a quanti hanno visto nell'autonomia regionale gestita da Trento l'opportunità di privare i sudtirolesi di gran parte delle competenze loro promesse e che ora chiede la linea dura nei confronti delle nuove richieste che arrivano dal mondo di lingua tedesca. È una corrente che gode di robusti consensi anche nella comunità italiana di Bolzano , non solo da parte dei reduci del ventennio raccolti alla luce della fiamma missina, ma anche in un vasto schieramento politico che comprende personaggi di spicco dei partiti di governo e in primo luogo della stessa DC.

A rendere il clima ancor più rovente, in quegli ultimi giorni d'estate del 1956, anche l'eco dei fatti di violenza che periodicamente punteggiano le cronache altoatesine. Poco meno di un mese prima, nel piccolo paese di Fundres, un giovane finanziere, Raimondo Falqui, è morto dopo essere stato selvaggiamente picchiato. tredici gli arresti effettuati nei giorni successivi. Per gli inquirenti si tratta sicuramente di un delitto a sfondo etnico politico.
Logico quindi che sia grande in tutti gli ambienti l'attesa per ciò che i vertici della politica italiana verranno a dire a Bolzano.
E l'attesa non viene delusa.

La mattina del 15 settembre, nel salone d'onore della Camera di Commercio di Bolzano, prende la parola il ministro dell'interno Fernando Tambroni. In prima fila, silenzioso, il capo dello Stato. Tra gli intervenuti moltissimi sindaci dei comuni altoatesini piccoli e grandi, scesi nel capoluogo per l'occasione.

Tambroni diverrà tristemente celebre nelle cronache politiche del dopoguerra qualche anno dopo, quando divenuto capo del governo con il voto determinante della destra missina, accetterà di sdebitarsi concedendo al partito dei reduci fascisti di tenere il proprio congresso in quella Genova considerata uno dei luoghi simbolo della resistenza italiana al nazifascismo. Per di più, come estrema provocazione, i missini annunceranno di aver deciso di far presiedere il congresso dall'ex prefetto repubblichino della città. Ne nascerà ovviamente uno scontro politico  e di  piazza che rischierà di far precipitare l'Italia in una guerra civile. Tra le vittime anche la carriera politica di Tambroni.

Nel settembre del 1956 tutto questo deve ancora succedere, ma già come ministro dell'interno il politico marchigiano sta dando prova di essere un "duro" e non si smentisce del suo discorso bolzanino. Nessuna concessione alle richieste SVP, ma anzi un monito severissimo a non coltivare nessun tipo di illusione riguardo a possibili ampliamenti dell'autonomia e la minaccia chiarissima di interventi repressivi contro ogni forma di indulgenza verso la galassia irredentista e secessionista che si muove al di qua e al di là del Brennero.

Al termine dell'allocuzione la platea reagisce con due atteggiamenti ben distinti ed opposti. Calorosi applausi da parte delle autorità politiche e militari di lingua italiana. Un silenzio glaciale da parte di tutti gli esponenti sudtirolesi.

Il discorso di Tambroni è l'ultimo in programma e quindi non c'è tempo e modo per una replica ma la risposta della Suedtiroler Volkspartei non si fa attendere. Per l'ultima domenica del mese, il 30 settembre, viene convocata una grande manifestazione di protesta. Altrettanto rapida la risposta delle autorità che la vietano,  adducendo come giustificazione la concomitanza con il corteo folcloristico che, da tradizione, accompagna la giornata di chiusura della fiera. Il braccio di ferro continua: la Suedtiroler Volkspartei a questo punto impone a tutte le bande musicali e ai gruppi di danzatori che avrebbero dovuto partecipare al corteo di restare a casa. Controrisposta delle autorità: vengono fatti arrivare dal Veneto e dalla Lombardia suonatori e danzatori in costume e il corteo si tiene egualmente.

Lo scenario, tra ottoni lucidati e gonne variopinte che ondeggiano al ritmo della danza, parrebbe quello di un'opera buffa, ma in effetti c'è ben poco da ridere. Prevale, in questa fase almeno, la logica dello scontro frontale e se ne avvantaggiano tutti coloro che puntano anche sulla carta della violenza. Occorreranno anni perché si possa tornare sul terreno delle trattative e della reciproca comprensione.

A noi preme qui fissare nella memoria un'immagine. Quella di un presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, che assiste silenzioso al discorso incendiario del suo ministro degli interni, un discorso del quale, ovviamente, egli conosceva  ogni aggettivo ben prima di arrivare a Bolzano. Dei primi presidenti della Repubblica italiana si dice che a differenza dei loro successori fossero meno inclini a quelle esternazioni tanto criticate negli ultimi decenni. Ebbene, a parere di chi scrive, quel "silenzioso assenso" di Gronchi alle parole di Tambroni  finì per avere lo stesso peso di una dichiarazione resa davanti ai microfoni. Era lo Stato nella sua interezza che si schierava accanto ad un esponente di governo. Con un silenzio più pesante di mille parole.