Kultur | Mostra

Il corpo della donna, misura del mondo

Merano Arte, in collaborazione con la Sammlung Verbund di Vienna, presenta le visioni avanguardistiche di Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen.
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Non riesco a provare simpatia per il termine “femminismo”, benché riconosca a molto di quanto rappresenti un’importanza cruciale nella storia culturale della nostra civiltà e benché mi senta di dover ringraziare molte delle sue istanze e delle sue esponenti.
Sarà che “femina” per me conserva ancora un retrogusto animalesco che rischia di svilire l’immagine culturale della donna, per riconoscerne solo, o in massima parte, un’appartenenza di genere definita esclusivamente dagli aspetti sessuali.
Provo inoltre una certa refrattarietà nei confronti delle iniziative “al femminile”: concerti di formazioni musicali solo femminili, rassegne cinematografiche di sguardi al femminile, monografie di artiste donne, quote rosa. Come se alla donna non fosse ancora dato il diritto di confrontarsi alla pari con i colleghi maschi su piani che non siano necessariamente quelli dell’identità di genere, ma debba sempre rappresentarsi nell’ambito di categorie protette.
Quindi una doppia monografica “tutta al femminile” su due rappresentanti delle avanguardie femministe degli anni Settanta avrebbe dovuto provocarmi una grave eruzione di orticaria. Invece, nella mia ampia collezione di antipatie, la Sammlung Verbund di Vienna fa una felice eccezione.
Il lavoro che si sono autoimposti è quello della documentazione e raccolta di un patrimonio di opere realizzate da artiste a partire dagli anni che hanno imposto l’esistenza di un discorso, filosofico, psicologico, culturale e sociale, sulla posizione della donna.
La collaborazione fra la Sammlung Verbund e Merano Arte si è mantenuta salda fin da quando l’istituzione viennese portò a Merano la monografica su Cindy Sherman nel 2013. Anche quest’anno è Gabriele Schor, direttrice della collezione Verbund, a curare una doppia mostra che vuole essere più una doppia prospettiva che un reale confronto fra le artiste Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen. Anche perché, oltre al fatto di usare se stesse e il proprio corpo come strumento, soggetto-oggetto del proprio lavoro, ed aver partecipato ad un periodo storico di grande trasformazione per le donne nell’arte, le due differiscono in modi, temi, necessità e linguaggio. 

“Incontrai” Francesca Woodman nel 2010 a Milano, alla mostra che le fu dedicata al Palazzo della Ragione, e fu amore a prima vista. La settantina di scatti esposti a Merano Arte è una buona approssimazione dell’intero corpus artistico che ha lasciato questa adolescente di profondissima sensibilità, per scelta mai giunta a confrontarsi con la propria identità di donna matura. Ma la ricerca di Francesca Woodman parte precocemente, sostenuta da due genitori artisti che a tredici anni le mettono in mano una macchina fotografica che per Francesca diviene immediatamente una protesi del proprio sguardo sul mondo. Il fascino che esercitano su di me gli scatti di Francesca Woodman dipende in buona parte dalla contrazione ed insieme dall’infinita espansione di questo mondo. Francesca fotografava se stessa, “perché sempre disponibile” come soggetto fotografico, come ebbe a dire lei stessa. Ma i suoi non sono veri e propri autoritratti, benché questa sia la categoria a cui più spesso si ascrive la sua opera. Il corpo dell’artista è un oggetto che attraversa, nelle diverse serie di immagini, diversi stadi materici: a tratti è muro, a tratti foglie o corteccia; a tratti è impalpabile tessuto, altre volte si fa carta, fumo, cadavere impagliato. È un ritratto di Francesca Woodman? O è un corpo che diviene, per una donna artista negli anni Settanta, quello che l’uomo vitruviano è stato per gli uomini del Rinascimento? Propendo per la seconda ipotesi. La rivoluzione culturale che ha rimpiazzato il ruolo di Dio al centro dell’universo, sostituendolo con l’Uomo, il suo Io e il suo intelletto, è stata una rivoluzione preponderantemente maschile. L’uomo s’è fatto misura di tutte le cose, la sua dimensione ha definito le dimensioni degli spazi che ha costruito intorno a sé. Nel mentre però la donna è rimasta oggetto, trasfigurato, forse, a volte feticcio, ma mai soggetto di un universo che le somigliasse e a cui lei somigliasse. Per questo il lavoro della Woodman, nel suo piccolo universo fatto di case decadenti e minuteria, è il frutto di una ricerca che punta all’assoluto. Il gesto estremo che Francesca ha compiuto a 23 anni ha portato molti a interpretare la sua opera in termini psicologici e biografici. Ma se è indubbia la ricerca di un’identità, in un’artista il cui periodo creativo ha coinciso con l’adolescenza, è anche impossibile limitare la lettura dei suoi scatti di piccole dimensioni alla lettura della sua personalità. Perché Francesca continua a uscire da se stessa, cerca costantemente una relazione con l’ambiente che la circonda, che crea, dispone e determina secondo una volontà precisa. È quindi consapevole azione sul mondo e non solo reazione a esso. E per questo i riferimenti al Rinascimento, che conosceva bene, ospite a più riprese della Toscana e di Roma, non si limitano alla composizione formale, pur accuratissima, delle sue fotografie, ma si estendono ad un assunto concettuale più ampio, per cui finalmente è anche il corpo di una donna, della Donna, a farsi misura del mondo, a diventare artefice del proprio contesto, a fuoriuscire da una condizione di mera creatura, parte e succube del Creato, per liberarsi come creatrice, a farsi oggetto e materia secondo un disegno preciso e pienamente consapevole.
In questo sento l’opera di Francesca Woodman un manifesto “femminista” molto più profondo e assoluto di quello un po’ più sguaiato di Birgit Jürgenssen. E se anche Francesca è stata vicina ai movimenti di emancipazione del suo tempo, non ha manifestato un intento così palesemente e programmaticamente politico come quello di Birgit. Anche lei ricorre a se stessa e al proprio corpo come soggetto-oggetto della propria opera, che non è solo fotografica, ma si serve di numerosi linguaggi, in primis del disegno, ma anche della scultura, della performance…
L’artista si fa manifesto del proprio pensiero, che è molto più strutturato e categorico, meno allusivo ed epifanico di quello della Woodman. Eppure nel suo parlare in modo così diretto allo spettatore, spesso utilizzando la scrittura come complemento integrante dell’immagine, il messaggio di Birgit Jürgenssen si fa quasi didascalico, a volte persino vezzoso, e perde quindi la dimensione dell’assoluto, per rimanere radicato nell’hic et nunc, e tutto sommato anche in un certo stereotipo, nonostante lo sforzo palese verso un’emancipazione totale.
Resta tuttavia la consapevolezza e il coraggio della rottura di canoni che all’epoca delle sue prime realizzazioni sembravano imprescindibili.

Quando come donna emancipata, consapevole e sostanzialmente libera mi trovo a tu per tu con la materia del femminismo, mi chiedo sempre quale sia la sua capacità impattante. Spostate alcune categorie, attraversate tutte le possibili sfumature del “gender”, definito e più volte ridefinito il ruolo della donna nel discorso culturale, siamo ancora anni luce distanti da una reale parificazione della dignità dei generi.
Riproporre la visione delle opere di Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen al pubblico è ancora un’operazione necessaria. Ma sono oggettivamente curiosa di sapere quale sia il margine di scarto fra la capacità di impatto culturale che le loro opere hanno avuto sulla loro generazione e che hanno oggi  sulla nostra. Nell’illusione della nostra forza potremmo forse stentare a riconoscere la realtà della loro.