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Foto: Paolo Ghezzi
Kultur | Il concerto

Piano e sei mani tra Bolzano e Kyiv

Metti una sera di settembre con tre giovani musicisti ucraini, tra Busoni e Horowitz.

C’è il fuoco appassionato dell’Eroica di Chopin (polacca n.6 in la bemolle maggiore): e ce lo mette Illia Ovcharenko.

C’è la notte tragica delle bombe e del lutto: la Danse Macabre (Saint-Saens/Liszt/Horowitz) che esplode tra le dita di Roman Lopatynskyi.

C’è una dolente, sussurrata speranza nel bis finale di Antonii Baryshevskyi, che sceglie un autore ucraino contemporaneo, Valentyn Syl'vestrov, per congedarsi dal pubblico bolzanino che la prima sera di settembre ha seguito per tre ore, con empatia vera, la triplice esibizione dei giovani pianisti ucraini chiamati da Peter Paul Kainrath a interpretare uno splendido “Horowitz Hommage” nel Festival Busoni.

 

Nato a Kyiv nel 1903 e morto a New York nel 1989, geniale interprete e riscrittore dei grandi romantici, ultimo romantico per eccellenza, Horowitz dà il nome a un concorso pianistico che Kyiv spera di poter riorganizzare nel 2023: di qui l’idea che l’incasso della serata bolzanina vada ad aiutare gli amici ucraini in un’impresa artistica di pace in questi maledetti tempi di guerra. La guerra sporca di Putin, il dittatore.

Da Busoni a Horowitz, da Bolzano a Kyiv, dunque, nel segno della solidarietà e nel suono del pianoforte. Senza assurde discriminazioni (Kainrath ha ribadito che dal Busoni non saranno esclusi i giovani artisti russi) ma con una esplicita dichiarazione di simpatia per il popolo ucraino aggredito e per i suoi musicisti.

I tre giovani pianisti andati in scena al Palazzo Mercantile sono tutti “passati” per il Busoni, senza vincerlo ma con risultati di eccellenza: nel 2011 (primo premio non assegnato) Antonii Baryshevskyi ha ottenuto il secondo ex aequo proprio con una collega russa, Anna Bulkina; Lopatynskyi è stato terzo premio nel 2015; Ovcharenko sesto classificato nel 2021.

Anche se negli ultimi anni si è affermata la scuola orientale, con grandi pianisti cinesi e coreani, la lunga storia del Busoni è contrassegnata dai successi della scuola pianistica dell’Unione sovietica o dell’ex Urss. Nel 1968 la prima vittoria, del moscovita Vladimir Selivochin (1946-2015). Nel 1987 un’altra stella di Mosca, Lilija Zilberstein, conquista il primo premio all’unanimità, imitata cinque anni dopo, nel 1992, dall’ucraina Anna Kravtchenko.

L’anno successivo l’ucraino Vitaly Samoschko conquista un secondo premio “con particolare distinzione” mentre nel 1995 e  nel 1999 i vincitori sono due Alexander russi: Shtarkman (all'unanimità) e Kobrin. Nel 2001 è di nuovo l’Ucraina a prevalere: con il travolgente Alexander (pure lui) Romanovsky. Mentre nel 2007 una pianista ucraina, Dinara Nadzhafova, e una russa, Sofya Gulyak, si dividono pacificamente il secondo premio ex aequo.

Insomma, Bolzano è pronta ad ospitare i colloqui di pace, se la pace fosse questione di tasti bianchi e neri, e se si potessero scrivere i trattati e gli armistizi su un pentagramma.

Intanto, i tre giovani ucraini nerovestiti e neri di capelli (e barba, nel caso di Antonii) hanno ribadito a Bolzano che Kyiv è Europa, pienamente e felicemente Europa, con un programma che ha avuto nell’immortale austriaco Schubert un fulcro scintillante, circondato da perle di Schumann, Scarlatti e perfino Bizet variato da Horowitz: delle fantastiche variazioni su Carmen.

Come a dire che dovrà venire pure, di nuovo, dopo il ballo macabro della guerra, il tempo degli zingari e delle danze e dell’amore. Carmen ci aspetta.