Kultur | Raccontare la storia

EVA DORME di Francesca Melandri

Quanto sarebbe ampia e in capo a chi dovrebbe ricadere la responsabilità di diffondere una conoscenza politicamente di parte della storia?
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Sono arrivato a questo libro tardi. Nel senso che dalla sua pubblicazione del 2010 alla mia lettura nel 2022 sono trascorsi dodici anni. E ci sono arrivato dopo essere passato, sempre nel 2022, da «Lingua madre» di Maddalena Fingerle: un libro sul quale non sono ancora riuscito a formarmi un giudizio definitivo ma che mi ha fatto ritornare la voglia di leggere letteratura che si occupi dell’Alto Adige o quanto meno vi sia ambientata.
Nella storia di «Eva dorme», i piani narrativi sono tre: nel primo la protagonista sudtirolese Eva, l’io narrante, parte per un viaggio in treno da Brunico a Reggio Calabria per andare a trovare il carabiniere Vito Anania, l’unico compagno, oggi vecchio e malato, di sua madre e a cui abbia potuto pensare come un padre; negli altri due, la storia della protagonista, di sua madre Gerda, di suo nonno Hermann e delle persone che ruotano loro intorno si intreccia con la storia dell’Alto Adige/Südtirol dal 1919, anno in cui il nonno rimane orfano ad 11 anni – e nel quale il Südtirol entra a far parte dello stato italiano -, fino al 1992, dove il nonno muore – e nel quale l’Austria rilascia la cosiddetta quietanza liberatoria a chiusura della vertenza internazionale aperta all’ONU sulla mancata tutela della minoranza linguistica sudtirolese conseguente alla mancata applicazione dell’accordo De Gasperi/Gruber del 1946 -.
I capitoli del libro replicano i piani narrativi. Il primo è suddiviso in una sorta di prologo, nel progredire dei chilometri che avvicinano Eva alla meta, nell’incontro con Vito e nell’epilogo. I secondi due sono suddivisi in anni specifici o archi temporali: 1919, 1925-1961, 1961-1963, ecc. fino al 1992.
La parte di Eva e dei componenti della sua famiglia dal 1919 al 1992 è quella che mi è piaciuta in assoluto di più. E a mio parere, è anche quella che di fatto cattura il lettore e sulla quale sostanzialmente si regge il libro. Le descrizioni del mondo sudtirolese contadino, strato sociale dal quale provengono i protagonisti, e della sua evoluzione, pur negli eventuali limiti del romanzare è assolutamente godibile e in alcuni punti di una verosimiglianza tale da sconfinare nel reale.
Ciò che invece non mi è piaciuto e che di fatto mi ha “costretto” – nel senso che non ho proprio potuto farne a meno - ad aggiungere un’altra recensione alle tante già presenti, è stata la parte, sempre dal 19019 al 1992, relativa alla storia dell’Alto Adige/Südtirol.
L’evidenza di ciò che non va è rappresentata da quelle che io ho definito assenze. E per capire cosa intendo, basta il solo passaggio che riporto di seguito:

1925-1961
[…] Fu anche uno degli ultimi. Pochi mesi dopo l’Italia entrò in guerra e le partenze degli Optanten, che pure erano la maggioranza dei sudtirolesi, furono interrotte. Partirono invece gli uomini richiamati per combattere al fronte. Alla creazione del paradiso in terra tedesco, del Daitschn Himml, nessuno pensò più.
Gli Huber tornarono nella vallata a guerra finita. Nessuno, compresi i Dableiber, provava curiosità per dove fossero stati. Su quale fronte avesse combattuto Hermann, in quale divisione della Wehrmacht, se fosse passato alle SS, se avesse assassinato molti civili o solo coetanei armati in uniforme, quindi soldati nemici che abbattere è giusto e morale: nessuno glielo domandò. Soprattutto nessuno gli chiese di rendere conto del paradiso in terra promesso dal Führer. Era sotto gli occhi di ognuno come fosse finito. […]

Tra «Pochi mesi dopo l’Italia entrò in guerra […]» e «Gli Huber tornarono nella vallata a guerra finita» non c’è nulla. Dei sudtirolesi che l’otto settembre del 1943 accolgono con cibo, bevande e fiori un esercito nazista considerato come liberatore, della caccia che già dal giorno dopo scatenano per le vie di Merano catturando ebrei da consegnare poi al campo – gestito anche dai sudtirolesi stessi - di smistamento di Bolzano (da dove partiranno i cosiddetti treni piombati con destinazione Auschwitz, Mauthausen, Flossenbürg, Ravensbrück, ecc.) e successiva razzia dei beni abbandonati da questi ultimi, dei civili volontari del SOD (Südtiroler Ordnungsdienst), dell’ulteriore arruolamento volontario soprattutto nelle SS (fenomeno comunque già ben avviato dal 1939), della condivisione quando non vero e proprio fanatismo della teoria e pratica nazionalsocialiste, del loro appoggio ai criminali nazisti nelle loro fughe da una Germania appena o da poco sconfitta, della loro copertura degli stessi criminali che hanno potuto vivere indisturbati in Südtirol per decenni, non se ne parla.
L’esempio che ho fatto si può estendere nei suoi effetti alla totalità di un racconto che a parere di chi scrive è, salvo pochi e comunque inefficaci accenni, edulcorato di tutte quelle parti che contrasterebbero la narrativa storiografica provinciale ufficiale di un popolo sudtirolese rappresentato sempre e solo come vittima e mai come carnefice: narrativa che, dopo che quasi sessantacinque anni (alla data di pubblicazione di «Eva dorme») di potere ininterrotto hanno reso la SVP e l’istituzione provinciale un’unica entità monolitica, corrisponde di fatto a quella del partito di governo del Südtirol. Tutto il resto, nel libro non c’è. È assente. E questa assenza, anzi, tutte queste assenze, sono pesantissime.
Ho contattato l’autrice attraverso la sua pagina facebook e le ho sottoposto – non così specifica, ma più articolata – la questione delle assenze così come l’avevo rilevata nel suo romanzo. La risposta, di poche righe, è stata in sintesi che il «romanzo non è un saggio storico sull'intera storia sudtirolese è solo la storia di una famiglia». Devo dire che l’ho trovata superficiale, anche perché nelle mie osservazioni, già intuendo a priori dove si sarebbe potuti andare a parare, avevo provveduto a specificare quanto segue:

Ora: è chiaro che un romanzo come il suo non si propone certo di essere un saggio storico. E ci mancherebbe altro che lo si pretendesse. Però non si può nemmeno impedire che il suo fruitore effettui una lettura storica e si formi un’idea di conseguenza. Nel caso di “Eva dorme” il rischio che l'idea che si formi sia parziale, non solo esiste ma temo proprio che di fatto si concreti.

A fronte di detta risposta, ho di nuovo replicato scrivendo che le mie osservazioni sulle assenze non erano da intendersi come critica al romanzo, ma condivisione con l’autrice per vedere cosa ne pensasse o quanto ne sapesse al riguardo, ma ad oggi non ho più ricevuto riscontro.
Il romanzo «Eva dorme» è bello e personalmente mi è piaciuto. Il problema, come si è capito, è un altro. La parte storica sull’Alto Adige, che, non dimentichiamo, costituisce comunque uno dei supporti alla narrazione, per me è di parte. Ovvero, non è obiettiva. L’obiezione a questo tipo di lettura l’abbiamo letta sopra: il romanzo non è un saggio storico ma la storia di una famiglia. Questa obiezione è però confutata dal fatto che il fruitore del libro effettua comunque una lettura storica e si forma un’idea – della storia – di conseguenza. Dopo aver letto «Eva dorme» sono andato in rete a cercare i commenti dei lettori. Una significativa parte di questi ringrazia l’autrice per tutto quello che non conosceva sull’Alto Adige e che ora ha imparato dal suo romanzo.
Quanto sarebbe ampia e in capo a chi dovrebbe ricadere la responsabilità di diffondere una conoscenza politicamente di parte della storia? E quali sono i potenziali danni che la diffusione di questo tipo di conoscenza potrebbe comportare?

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