Gesellschaft | Silenzio

Del rumore, del silenzio e della quiete

Frastornati da continue sollecitazioni sonore, oggi siamo più sordi al suono benefico del rispetto reciproco.
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.
mountains-962797_1920.jpg
Foto: upi
Non mi piace il silenzio. Quel che amo sono i rumori. Amo lo sbattere violento dell’acqua che si infrange sulle rocce della cascata del Pisciadù. Amo e mi riempie di meraviglia quel rigoglio lieve dell’acqua termale che dopo decenni a centinaia di metri di profondità sale dalle viscere della terra. 
E mi fa sobbalzare e mi incute timore il frastuono di un pezzo di dolomite che si stacca, una slavina che travolge tutto e tutti e a sempre maggiore velocità scende verso valle incurante di un amore appena sbocciato o di opere d’arte secolari.
Mi rendo conto del piccolo uomo che sono quando odo quel sordido tonfo del manto nevoso che si assesta su una grande superficie mentre ci si cammina sopra.
Sono rumori che fanno parte di me, che mi hanno plasmato, che mi rendono partecipe del mondo lì fuori e di quella vita vibrante che sento dentro.
Dico che non mi piace il silenzio perché faccio come la volpe con l’uva, semplicemente non lo conosco. Ma credo che non mi piacerebbe. Lo sentirei opprimente, mi schiaccerebbe la testa, mi sentirei in gabbia, un insopportabile vuoto troppo pieno.
Non posso però dirlo con certezza, perché il silenzio assoluto non l’ho mai vissuto. Lontano dagli esseri umani, lassù sui monti, c’è sempre un camoscio che chiama i suoi piccoli, nel bosco un ramo che si spezza, e nella vecchia casa dove abitiamo gli antichi legni scricchiolano in continuazione. 
A questo punto null’altro mi rimane da fare, per legittima difesa, che frapporre rumore al rumore e mettere le mie cuffie e spararmi un po’ di sano rumore rock.
Però con il passare degli anni sono diventato molto, troppo sensibile ai rumori umani. I motorini nelle città mi fanno male alle orecchie. E ancora peggio le moto che salgono i passi. E tutte quelle parole spese per giustificare le opere di distruzione del nostro paesaggio, quelle sì che colpiscono duro.
Così come trovo insopportabile quando le persone parlano ad alta voce al telefono. E non è paradossale che sui treni l’altoparlante ti svegli mentre ti stai appisolando chiedendoti di moderare il tono di voce?
Sono peggiorato negli anni: tutti quei bip di auto, frigoriferi, lavastoviglie, macchine del caffè e computer e il fastidiosissimo ronzio dei droni mi infastidiscono ben più di una zanzara che mi ronza attorno.
 
Quel che mi stupisce e rattrista è che da albergatore non riesco a fare passare il messaggio dell’importanza, almeno per me, della quiete dentro e fuori un albergo. Non sto parlando di silenzio assoluto, ma di tranquillità, di pace, di rispetto.
Stamane il buon Andrea è partito con il tosaerba mentre ancora regnava la calma. Poi è arrivato il camion delle verdure e, con gran fracasso, gli operai hanno scaricato casse e cassette per caricarle sui carrelli e arrivare all’ascensore della cucina dopo avere attraversato tutto il piazzale tra vibrazioni, cigolii e invocazioni varie. Sembrava di essere al mercato.
D’altronde anche papà Ernesto mette in moto la sua 500 Abarth del 1971 alle otto del mattino, schiaccia due, tre volte l’acceleratore per poi partire a razzo, nemmeno fosse uno sputnik russo.
E sembra di essere in aeroporto quando, verso le 6.30, entro in albergo. Da lontano sento i ragazzi, sono svegli da un po’, lavorare da noi non è una passeggiata, e loro sono già belli carichi. Chiedo di abbassare il tono di voce, c’è chi ancora riposa, e lì c’è già un ospite seduto. Mi dicono, sì certo. Ma so già che non gioverà a nulla, domani sarà la stessa storia. E dopodomani anche. 
 
Quel che mi stupisce e rattrista è che da albergatore non riesco a fare passare il messaggio dell’importanza, almeno per me, della quiete dentro e fuori un albergo. Non sto parlando di silenzio assoluto, ma di tranquillità, di pace, di rispetto.
E continuerò comunque a chiedere alla cucina di non urlare mentre chiamano i piatti e, abbiate pietà di me ragazzi cari, durante il servizio in sala non tenete i comizi. E a te presidente famoso di quella società ciclistica, quando faccio il mio breve discorso alla Maratona, per rispetto degli altri, ti piacerebbe tacere un minuto?
A essere quello strano però, sono solo io, evidentemente. Perché per me è incomprensibile una radio a caso che trasmette chiacchiere, solo chiacchiere con persone che urlano, sbraitano e litigano mentre aspetto il mio turno dall’ottimo medico condotto e amico Martin a La Villa. Stessa storia dal dentista.
E va ancora peggio nei locali e nella maggior parte dei bar. Allora ripenso non tanto al silenzio, ma al fatto che si potrebbe essere tutti più silenziosi, meno rumorosi, come se il nostro produrre rumore fosse un espediente per non ascoltare noi stessi, gli altri che ci stanno intorno, le grida di un mondo malato.
A questo punto null’altro mi rimane da fare, per legittima difesa, che frapporre rumore al rumore e mettere le mie cuffie e spararmi un po’ di sano rumore rock. Oppure andare a un concerto. O farlo venire in casa.
E così sarà: l’11 agosto a Corvara suonerà per noi una grande band, i Purple Rain, che renderanno omaggio alla musica in chiave jazz di icone del rock e del soul come Jimi Hendrix e Earth Wind & Fire. E ce la spasseremo e canteremo e, tutti felici e contenti, faremo un gran baccano. Poi, finita la festa, andrò lassù, su quella cima a guardare il grande rapace che volteggia. E quando fischierà avrò capito: è l’aquila reale.