Politik | Politica e cultura

L'Europa come fenomeno culturale

Il sogno europeo e le nuove barriere. Anche mentali.

In un libro composto durante la seconda guerra mondiale Paul Koschaker scriveva che l’Europa è prima di tutto un fenomeno culturale. Koschaker – storico del diritto romano - pensava che l’idea stessa di Europa non avesse nulla a che vedere con i confini tracciati sulle carte geografiche, né con il processo istituzionale e di integrazione economica che si sarebbe intrapreso pochi anni dopo la pubblicazione del suo libro «Europa und das römische Recht» (1947): egli chiariva che prima di essere una comunità politica o economica o - peggio ancora - una faccenda di frontiere, l’Europa stava a significare un fenomeno culturale. In una parola: la sua storia. In questo senso l’idea di Europa travalica i suoi limiti geografici e si estende su orizzonti infinitamente più ampi.

Negli ultimi decenni l’unione politica ed economica ci è parsa una conquista storica consolidata e solo nell’ora presente ci si rammenta che non è consentito beneficiare di un definitivo progresso della storia, valido per sempre, eterno. Nelle cose umane non vi sono certezze acquisite una volta per tutte ed ogni conquista – finanche la più apparentemente ovvia – va confermata nel presente per assicurarla al futuro. Le meravigliose formule dei trattati - da ultimo quello di Lisbona – non bastano a cristallizzare una volta per tutte, definitivamente, la realtà. Il riconoscimento dei cosiddetti diritti dell’individuo, per esempio, non basta di per sé a garantire la reale affermazione di questi diritti e rischia di risolversi in un vano esercizio retorico (Paolo Grossi, storico del diritto e oggi presidente della Corte costituzionale, ha scritto illuminanti pagine sulla retorica illuminista – e individualista - della Carta di Nizza, oggi incorporata, non a caso, nel Trattato di Lisbona).

La realtà, dicevamo, è per sua natura in costante procedere, non si addomestica con i tratti di penna dei legislatori e di rado coincide con le formule astratte dei giuristi. La realtà è – in una parola – storia.

Negli ultimi anni il processo di integrazione europea è stato costantemente revocato in dubbio: prima dall’estenuante braccio di ferro tra Atene e Bruxelles (si parlò allora di “Grexit”), poi dalla pensata di erigere mura o recinzioni a salvaguardia dei confini nazionali (il caso più eclatante fu la barriera innalzata dall’Ungheria al confine con la Serbia, un esempio che ha trovato consenso in Polonia e in Repubblica Ceca). Oggi è il Regno Unito a minacciare una clamorosa uscita di scena dal palco politico comunitario (si parla oggi di “Brexit”). Domani, saranno altri, fino a che, con ogni probabilità, non si avrà un governo che dalle minacce passerà ai fatti e ci mostrerà su quali fragili basi sia stato costruito il processo di integrazione politica: l’ideologia dello “stato nazionale” (vale a dire il nazionalismo politico e giuridico) si scopre solo oggi tutt’altro che debellata e anzi rischia di prendersi una atroce rivincita: i partiti della più sprovveduta destra populista stanno raccattando consenso ovunque: cavalcano forsennatamente la tigre della paura e del risentimento. Partiti che parevano morti e stecchiti, come la Lega Nord in Italia o la FPÖ in Austria, rastrellano voti candidando di buon mattino il primo che passa, lo stesso che la sera prima ha digerito male (e non mi si obbietti come è stato fatto - per carità! - che scrivo da “censore”: una delle recenti cosiddette conquiste storiche consiste nella libertà di espressione e di parola, magari, nei casi più fortunati, sorretta dalla libertà di pensare e, nei casi più fortunati ancora, dall’esercizio di questa singolare libertà). Ragioni economiche e salvaguardia dei confini nazionali revocano dunque in dubbio l’unità politica europea e la libera circolazione di persone e merci. Il governo austriaco, forse pressato dal pericoloso incalzare della stessa destra che nel 2000 conquistò già una prima volta le luci della ribalta, ha preso una decisione drastica e pericolosa. Questo genere di decisioni sono dettate più dalla paura che non dalla ponderazione: si pensa all’immediato e ci si preoccupa delle reazioni degli elettori; non ci si cura del lungo periodo. Una barriera al Brennero non è semplicemente un muro. È un segnale – forse inconsapevole – a tutti gli altri Paesi europei. Con i muri non si mostrano né forza né certezze identitarie. Con i muri si mostra insicurezza. Mostriamo di non sapere esattamente chi siamo davvero. Sembriamo così dimentichi della profonda unità culturale di questa povera Europa che per paura di perderci del tutto siamo pronti a chiuderci negli angusti spazi dello Stato nazionale. Dimentichiamo che certe grandi idee, a differenza delle merci, sono difficili da arrestare ai posti di blocco. Sono «fenomeni culturali» appunto – e non vi è steccato che possa arginarle.