Gesellschaft | Civiltà e giornalismo 2.0

Le nuove vie digitali dell'odio

Ecco perché le manifestazioni di razzismo, sessismo e omofobia sono diventate oggi, in maniera più o meno consapevole, funzionali ad un certo marketing dei media. Intervista al digital strategist Flavio Pintarelli.

Ne abbiamo parlato su Salto nei giorni scorsi. Spesso le sezioni dei commenti agli articoli dei giornali online e nelle pagine facebook degli stessi pullulano di vero e proprio odio, oggi neppure più mascherato dietro l'anonimato ed uno pseudonimo. Perché avviene questo? Perché nessuno interviene anche se gli insulti espressi rasentano il reato?
Per chiarirci le idee in merito abbiamo chiesto aiuto a Flavio Pintarelli, al quale già altre volte abbiamo chiesto in passato di spiegarci i meccanismi della comunicazione web 2.0, tra l'altro luogo nativo di Salto come progetto integrato di informazione e comunity di utenti.  

● Flavio Pintarelli, cos'è successo? 
L’odio è diventato uno strumento del marketing dei media? 

Flavio Pintarelli - No, non direi che l’odio sia diventato uno strumento del marketing. Però è vero che l’odio, e il modo in cui questo viene espresso nel digitale, sono diventati funzionali a un certo marketing dei media. 
Questa cosa succede perché oggi i modelli di business nel web sono ancora acerbi e la principale fonte di entrate le pubblicità (display advertising in gergo tecnico). Si sa che le pubblicità vengono vendute sulla base di metriche ricalcate su quelle dell’editoria a stampa, per cui oggi un commerciale vende agli inserzionisti soprattutto in base al numero di utenti unici che si registrano sul suo sito ed alla quantità di pagine viste. In sintesi: i giornali online ottimizzano i loro contenuti per ottenere buoni risultati su questi parametri.

Ma ci sono nei giornali online delle specifiche scelte editoriali che vanno proprio in questo senso?
Spesso vengono privilegiate le notizie facilmente consumabili che generano reazioni di pancia ed attirano molti clic, producendo valore che poi viene rivenduto. È un meccanismo abbastanza complesso e “diabolico”, che ho provato ad approfondire in questo post.

● Vi è consapevolezza delle conseguenze 'sociali' di questo comportamento?
Non so se esiste una consapevolezza diffusa di questi meccanismi. Credo che molti giornalisti non si rendano ancora bene conto del rischio che questi meccanismi comportano, ma dall’altro lato credo che questa consapevolezza vada sempre più diffondendosi. Personalmente consiglio di considerare l'ottimo e prezioso lavoro di divulgazione sulle metriche con cui misurare il giornalismo digitale che stanno facendo quelli di Datamedia Hub

Un termine chiave che viene messo in gioco quando si parla di queste cose è 'engagement. Per santificare il brand vale davvero tutto?
Engagement è una parola inglese che significa essenzialmente “coinvolgimento”. È un termine tecnico del marketing digitale che si usa per indicare quanta interazione sviluppa un contenuto creato da un brand. Per interazione si intendono principalmente dei parametri quantitativi come il numero di clic, di commenti, di condivisioni o di apprezzamenti che il contenuto ottiene nelle varie piattaforme. 
Da solo è un dato abbastanza scarno, per questo di solito è affiancato dall’analisi del sentiment ovvero del giudizio (positivo o negativo) con cui questo contenuto è accolto dal proprio pubblico. Il fatto è che il sentiment è un dato più difficile da ottenere e da interpretare e quindi i marketing manager preferiscono ottenere engagement perché è più chiaro e vendibile.
Questo fatto crea delle strettoie e delle scorciatoie da cui nascono tutta una serie di fenomeni. Di fatto l’esigenza di soddisfare questo genere di metriche influenza l’intero modo in cui viene concepito e gestito un progetto di informazione digitale.
Che il brand oggi sia un valore è indubbio, spesso è la cosa più importante che possiede un’organizzazione attiva nel settore dei media. Santificare il brand significa avere innanzitutto una visione chiara del proprio progetto e perseguirla.

La violenza verbale sui siti dei giornali online è veicolata soprattutto dai commenti agli articoli. Una volta i commenti più aggressivi venivano postati da utenti anonimi. Oggi invece quasi nessuno più si nasconde, perché?
L’anonimato in rete è solo una percezione ed una percezione alquanto errata. 
Il fatto che molte persone oggi non si facciano problemi a dire cose francamente orribili in spazi pubblici credo sia dovuto al fatto che quelle persone pensano davvero quelle cose. Certo c’è ancora una grossa zona grigia che non ci fa percepire quanto la rete abbia assottigliato, confuso e avvicinato la sfera pubblica e quella privata, ma la mia impressione è che razzismo, sessismo e omofobia siano tornate a essere parte integrante della visione del mondo di molte persone.
Spesso si pensa che la rete sia una causa di questa situazione. Io dico piuttosto che la rete ci ha fatto conoscere una realtà che non pensavamo esistesse o che piuttosto volevamo evitare di vedere. Ci ha sbattuto in faccia questa situazione e ora non possiamo non farci i conti.

● Quale sarebbe la strategia corretta che dovrebbero adottare i media online per ‘gestire’ questi commentatori?
Non credo ci sia una strategia corretta in assoluto, credo che i media digitali debbano semplicemente scegliere come vogliono comportarsi di fronte a queste situazioni. Si può scegliere di lasciare libertà di commento, come faceva e fa ancora Radio Radicale, e prendersi la responsabilità di quello che viene scritto dagli utenti, con tutti i risvolti legali del caso. 
Oppure si possono studiare forme e strategie di intervento e di moderazione. Che in questo caso non significa censurare o cancellare dei commenti, ma semplicemente intervenire nelle discussioni (che sia il giornalista che scrive il pezzo o il community manager non fa differenza) per evitare che degenerino o per invitare i commentatori a più miti consigli.
Quello che non andrebbe fatto è evitare di scegliere, come succede spesso, oppure agire senza un’idea precisa di come comportarsi. Poi, più in generale, riflettere sul modo in cui vengono date le notizie sarebbe un passo avanti ulteriore verso un ecosistema dei media più attento. 

● I media più 'virtuosi' nel moderare i commenti ai propri articoli oggi possono pensare di poter essere in qualche modo premiati dagli utenti? 
Dipende. Un media che decidesse di non tollerare più commenti razzisiti sulle sue pagine rischierebbe di perdere del pubblico, ma se la sua linea è fortemente e coerentemente antirazzista probabilmente un pubblico di quel genere non è il giusto pubblico, quello da cui gli inserzionisti del media in questione potrebbero trarre valore. 
Dunque perdere un pubblico poco attento, poco interessato e poco coinvolto non è necessariamente un male, anzi. È un modo per poter focalizzare e concentrarsi sul pubblico che invece ha un forte legame col brand ed è disposto a premiarlo acquistando un abbonamento, finanziando un progetto in crowdfunding o visitando il link al sito di un inserzionista.