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Foto: Il Sole 24 ore
Kultur | Vorausgespuckt

Sculpter sa propre statue

Cartolina di fine estate da Gardone, luogo in cui un poeta magniloquente spogliò i suoi versi presentendo la morte.

Ferragosto può offrire un'interessante opportunità per ripiegarsi un po' su sé stessi (ripiegarsi, non accartocciarsi), cioè per dare una controllatina a quel processo di autopoiesi che i greci chiamavano téchne toũ bíou e i francesi pratiques de soi. Sono sollecitato dalla lettura di alcune pagine di un bel libro scritto da Costica Bradatan e tradotto nel 2017 dalla casa editrice Carbonio, che porta il titolo “Morire per le idee. Le vite pericolose dei filosofi”. La tesi del volume, che io condivido, è che la filosofia non sia un'attività esclusivamente teoretica, ma debba sfociare necessariamente in una “conversione” della propria vita, assumendo che il destino individuale di chi la esercita sia la parte più vera dell'opera. Citazione esplicativa, sulla scorta del lavoro di un grande storico del pensiero antico quale fu Pierre Hadot: «L'atto filosofico non si situa solo nell'ordine della conoscenza, ma nell'ordine del “Sé” e dell'essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l'essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata dall'incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, a uno stato di vita autentica, dove l'uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori».

Ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla

Pensavo, anzi ripensavo a queste cose passeggiando (l'ho fatto di recente) nel parco del Vittoriale, a Gardone, che cinge la casa sul lago (la famosa “Prioria”) nella quale Gabriele D'Annunzio trascorse gli ultimi diciasette anni di vita. Sicuramente anche D'Annunzio – sebbene non sia annoverabile nel numero dei filosofi stricto sensu – ha cercato di fare della propria esistenza non solo “un'opera d'arte”, peraltro macerata in un gusto oggi davvero poco digeribile (lo sa chi ha visitato il posto, soprattutto le stanze in cui alloggiava, così stipate di oggetti, quasi fino alla soffocazione), ma un movimento complessivo che avrebbe dovuto sfociare, appunto, in una visione esatta del mondo, nella pace e nella libertà interiore. Ed è significativo che tale esito abbia a che fare con una meditazione sul senso della morte, poeticamente rappresentata nell'angolo forse più impressionante del complesso, almeno per me, vale a dire il piccolo cimitero in cui l'Imaginifico (secondo la definizione attribuita dal poeta a Stelio Effrena, uno dei personaggi del romanzo “Il fuoco”) seppellì i suoi cani, e presso il quale si leggono alcuni dei suoi versi migliori, retoricissimi fino alla spoliazione di ogni retorica, scritti nel 1935:

Qui giacciono i miei cani
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito,
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.

Scolpire la propria statua, ma come fosse un busto senza testa

Ho sempre trovato bellissimi questi versi proprio perché contengono un moto di consapevolezza estrema, partorita da un uomo che tutti pensiamo imbalsamatosi (da vivo) e insarcofagatosi in pose magniloquenti, spesso anche ridicole e tronfie. Ma alla fine della sua esistenza terrena, invece, eccolo qui, questo “uom da nulla”, quasi a ricalcare un famoso frammento di Seneca: «Intanto, mentre si fanno trascinare e trascinano, mentre l'uno rovina la tranquillità dell'altro, mentre si rendono miseri a vicenda, la vita passa infruttuosa, priva di soddisfazioni, senza nessun profitto per l'animo. Nessuno tiene sott'occhio la morte, nessuno si guarda dallo spingere lontano le proprie speranze; alcuni addirittura predispongono anche quello che va oltre la vita: sepolcri di gran mole, opere pubbliche con dedica, spettacoli al rogo, esequie pompose». Se la vita umana davvero consiste nel creare sé stessi come lo scultore crea una statua, non dovremmo mai scordare che la scultura più somigliante non potrà mai essere qualcosa di perfettamente compiuto, e non sarà neppure la “grande statua solitaria in un giardino” della quale, sempre D'Annunzio, mostrava il gesto nel suo “Poema paradisiaco”. Semmai un busto senza testa, ricoperto di muschio o di scritte volgari a pennarello, magari seminascosto dalle foglie di una siepe poco curata, mentre due giovani amanti ignari di chi raffigura, con le mani intrecciate camminano, e senza badargli lo sfiorano con occhi offuscati in un giorno d'Agosto.

P.S. Per approfondire, consiglio la lettura del libro di Emanuele Trevi, "I cani del nulla" (Einaudi)