Trento
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Politik | trentexpress

La nuova marcia sul Trentino?

Tra nuove sfide e vecchi errori il racconto di 50 anni di elezioni politiche.

Sulle sue locandine elettorali, il volto perplesso di una persona seria e, fino a questa campagna elettorale, estranea alla politica come Pietro Patton, candidato al Senato di Trento per il centrosinistra trentino allargato ai calendiani, dice meglio di qualsiasi parola la difficoltà dell’impresa. Lui – che i compagni di università ricordano eccellente studente di economia a fine anni 70 – espone il suo curriculum di manager pubblico e quello successivo di manager privato, affidando alla dimensione tecnica tutte le sue carte. Sotto il suo volto, un sacco di simboli (5, di varia foggia e colore, incluso il verde pallido del neonato Campobase dellaiano, ennesima creatura partorita dal Principe della Margherita) ma lui sa che la scommessa – in questa epoca di disincanto democratico – è che gli elettori non guardino i cerchiolini e i simboli sotto, ma la faccia che sta sopra. Perplessa, appunto, ma seria. Con il vento forte che spira da destra, è una sfida controcorrente.

 

Cinque anni fa, il centrodestrorso De Bertoldi prese 46.479 voti,  3.354 in più dell’autonomista poco sinistrese Panizza, senatore uscente (aveva preso addirittura uno sfavillante 49% nel 2013), che se ne tornò a casa. Il risultato di Pradi (LeU) fu un dignitoso 3,4%, 4.175 voti che sarebbero bastati a Panizza: e qui si potrebbe dire che la sinistra si fa sempre del male, senonché il Franco autonomista di sinistra, avendo di sinistra solo le maniche della giacca, non si poteva pretendere che intercettasse i voti antagonisti. Nei precedenti, Patton può trovare auspici favorevoli ma anche sfavorevoli. Di favorevole c’è la legge del pendolo che ha regolato gli ultimi vent’anni: a ogni tornata elettorale la vittoria è andata a quelli che avevano perso il turno precedente. Dopo il Tonini (csx) 2006 è arrivato il Divina (cdx) 2008, dopo il Panizza 2013, il De Bertoldi 2018. Il pendolo penderebbe dunque per Patton. Ma c’è anche l’infausta ricorrenza trentennale della candidatura – la prima e ultima nella sua città – di una persona molto seria come Nino Andreatta, pluriministro di vaglia, che nel 1992 si fermò al 36% e non fu eletto. Cinque anni prima, con tutt’altra legge elettorale, a Marco Boato per essere eletto bastò il 18% di quattro liste di “pura sinistra”.

Analogamente e parallelamente al Senato, cinque anni fa, andò alla Camera. Nel collegio di Trento la new entry leghista Zanotelli sconfisse la navigata assessora pidina del Comune di Trento Franzoia per neppure 5mila voti, più o meno quelli finiti alla candidata di Leu Attolini. Le successioni elezioni suppletive del 2019 videro la candidata progressista Merlo superare la soglia magica del 40% ma soccombere di misura alla nuova candidata salvinista Loss (46 a 41%).

È algebra, prima ancora che politica

Anche nel 2018, si confermò così che, in Trentino, tutto il centro si deve sommare a tutta la sinistra se vuol battere il centrodestra. È algebra, prima ancora che politica. Ma che cosa raccontano 50 anni di elezioni politiche in Trentino? Limitandoci alla Camera e al collegio di Trento, che da sempre – pur includendo la Rotaliana e le valli di Non e di Sole – è più “progressista” rispetto a quelli delle valli orientali e occidentali, la storia di mezzo secolo di votazioni si può descrivere così: la grande Dc dell’eterno dualismo Piccoli-Kessler garantiva una rappresentanza parlamentare bilanciata tra moderatamente progressisti e moderatamente conservatori; quando esplode, il Trentino si trova equamente diviso, e pendolarmente oscillante, tra centrodestra e centrosinistra.

Nel 1972, anno di svolta per l’autonomia provinciale, c’era ancora il Grande Centro della Balena Bianca: la Dc aveva ancora la maggioranza assoluta, anzi una stramaggioranza del 59,6%, che quindici anni dopo era ancora larga a sufficienza per garantire una solida pattuglia scudocrociata a Roma: 43,6%.

Nel 1992, anno di Tangentopoli e della deflagrazione dei partiti tradizionali della prima Repubblica, l’ultima traccia radar della Democrazia cristiana la vede al 35%. Con i liberali, il “centro” che ha rappresentato l’anima politica di gran lunga maggioritaria del Trentino, tocca il minimo storico del 37%, essendo stato dissanguato da una Lega balzata subito al 14% dei consensi. Due anni dopo, nel 1994, nel collegio di Trento il nuovo “centro” di Forza Italia (22,1%) e Partito popolare (18,7%) era già tornato a rappresentare oltre il 40% del consenso elettorale: se ci aggiungiamo il 10,9% degli autonomisti, significa che il Trentino restava in maggioranza assoluta in mano ai moderati.

Il problema degli autonomisti  è che si sono quasi sempre tenuti fuori dalla partita tra centrodestra e centrosinistra

Il problema degli autonomisti – che sono riusciti con Andreotti e Rossi a prendere due volte la presidenza della Provincia – è che si sono quasi sempre tenuti fuori dalla partita tra centrodestra e centrosinistra, in nome di una “purezza” trentinistica, che però li ha relegati ad un ruolo marginale nelle competizioni nazionali. Il grafico, che li rappresenta in verde, esprime plasticamente la modestia dei loro risultati elettorali nell’ultimo mezzo secolo: da un minimo del 4% ad un massimo del 12%, non sono mai entrati veramente in partita.

 

Per quanto riguarda la sinistra (in cui, per gli scopi di questo articolo riepilogativo, ho incluso anche i Verdi), è sempre stata una presenza minoritaria ma solida, di almeno un quarto dell’elettorato trentino, ma la sua frammentazione in liste minori le ha impedito di superare il 35%, lasciando dunque al centro la guida del gioco, nel suo moto pendolare tra destra e sinistra che dal 2006 in poi è diventato un sistema esplicitamente bipolare. La discesa in campo dell’uomo di Arcore, nel 1994, con Forza Italia subito primo partito con il 22%, aveva già sancito l’allineamento del Trentino con le oscillazioni politiche nazionali. E 16 anni fa, con Prodi al 50,1% e Berlusconi al 49,7%, la fotografia di un Trentino spaccato a metà come una mela tra centrosinistra e centrodestra ha confermato l’evoluzione di una provincia storicamente democristiana in una “provincia d’Italia”.

Vedremo tra pochi giorni se questo decennio di 5 Stelle è stato, in Trentino, una meteora o se può diventare una costellazione strutturale del sistema politico provinciale

L’apparizione del grillismo antisistema nel 2013, con poco più del 20% nel collegio di Trento, confermato cinque anni dopo, ha tolto una fetta significativa, in misura sostanzialmente paritaria, ai due centro-qualcosa contendenti. Vedremo tra pochi giorni se questo decennio di 5 Stelle è stato, in Trentino, una meteora o se può diventare una costellazione strutturale del sistema politico provinciale.

Il 25 settembre 2022 in Trentino è anche, ovviamente, il test inequivocabile sulla prima legislatura a giunta provinciale di centrodestra populista in oltre 70 anni di autonomia: e quattro anni di propaganda continua, dal Covid cavalcato come uno show a dispetto della scadente gestione dell’emergenza fino all’ingresso della Provincia autonoma di Trento nel mondo del marketing musicale (megaconcerto Rossi) sono stati coronati coerentemente, pochi giorni prima delle nuove elezioni, dalla misura ultrademagogica del bonus bollette di 180 euro per tutti i trentini, milionari inclusi.

 

Data epocale, dunque e comunque, questo 25/9/2022. La storia ci ricorda che a Bolzano (con l’assassinio di Franz Innerhofer) e a Trento, il 4 ottobre 1922 con l’ingresso in città delle camicie nere cremonesi di Farinacci, si svolsero le prove generali della marcia su Roma… Un anniversario che fa un certo effetto.

Di certo, se anche in Trentino FdI dovesse ottenere un risultato forte, sarebbe una svolta radicale per una provincia che – lo racconta la linea grigia in fondo al grafico – ha sempre concesso percentuali minime alla destra-destra, finché nel ’92 non è apparsa la nuova destra della Lega (i cui risultati abbiamo sommato a quelli della destra tradizionale), che però era travestita da neo-autonomismo federalista. C’era insomma l’ideologia del Nord a sdoganare la svolta a destra, mentre un Trentino sedotto da Fratelli d’Italia, una deflagrazione del melonismo, rappresenterebbe una mutazione antropologica dell’elettorato, uno tsunami rispetto alla tradizione missina (madre postfascista dei Fratelli) che in Trentino è sempre stata una voce minimale, marginale e residuale.