Politik | ELEZIONI

Democrazia e forza dei numeri

Nel dibattito pubblico la forza sembra essere il solo presupposto di politica e diritto. Così si aprono le porte del Comune a forze eversive. A queste occorre dire: no.

Queste elezioni comunali non sono soltanto lo specchio dei momentanei rapporti di forza tra i diversi partiti. Esse riflettono il senso civico di una comunità e della classe dirigente che dovrebbe rappresentarla. La posta in gioco non è soltanto la vittoria di questo o di quel candidato: i regnanti prima o poi (e naturalmente, a volte prima e a volte molto poi), cadono. La posta in gioco è l’idea che una comunità ha di se medesima e del suo vivere in comune. Queste elezioni non hanno offerto lo spettacolo che ci si aspettava e con ogni probabilità chiunque andrà a vincere il ballottaggio del 24 maggio, uscirà comunque sconfitto. Ma, sconfitta, prima di tutto, uscirà una precisa idea di democrazia. Nel dibattito pubblico sembra spadroneggiare un’idea assai semplice e banale: la forza legittima il potere pubblico. Secondo questa idea il requisito indispensabile per amministrare una città non è l’autorevolezza di una classe politica e nemmeno la fiducia che si ripone nella sua statura morale. Il requisito per amministrare una città sembra essere uno solo: la forza dei numeri.

Questa idea non è affatto nuova: oggi assistiamo a una sua volgare riedizione. La si diffonde ovunque, senza sapere né da dove proviene, né chi l’ha coniata, né quali effetti ha avuto sulla povera storia europea. Non sono più i filosofi a proporla, ma è gridata nei comizi virtuali e in quelli reali. Trova eco nelle dispute nei bar, nelle cene con gli amici, nei post sui social network. La propagano i politici, soprattutto quelli senza qualità, che, se eletti, devono trovare un qualche fondamento per legittimare la propria presenza sul palcoscenico politico. Il ragionamento si sviluppa più o meno come segue: «non ho qualità, non ho meriti, sono un semplice portatore di un qualche interesse – un portatore passivo, magari “sano” – ma sono stato “eletto”». Stando alle dichiarazioni preelettorali dei vari candidati, tutti avrebbero in comune la prerogativa di volersi impegnare per il bene della cittadinanza. Cioè nostro. Si presuppone cioè, implicitamente, che la cittadinanza necessiti di una tutela, di un partito protettore e dei suoi rappresentanti. Succede così che un manipolo di bravi ragazzi che a mala pena sono riusciti a combinare qualcosa negli studi (e in qualche caso hanno semplicemente desistito) trovino un ruolo sociale, per il quale non occorre alcun sacrificio e alcun merito: professione politico. Non mi si fraintenda: non sono gli studi universitari a garantire la qualità di un politico. È la cultura politica. Quella che si apprende leggendo (per esempio dei libri), studiando, ma anche esercitando una professione (qualsiasi professione) con la consapevolezza di contribuire al bene della “polis”. Non basta una pattuglia organizzata, sostenuta dai voti di una massa critica, per trasformare il signor nessuno in un politico di statura: seguendo questo principio saremmo autorizzati a concludere che la forza dei numeri può compiere ogni genere di miracoli. Potrebbe trasformare il bianco in nero, il maschio in femmina, il giorno nella notte. Il giusto con l’ingiusto. Nei casi limite pare addirittura possibile, se lo statuto comunale lo consente, promettere un referendum per lasciare all’elettorato il privilegio di stabilire se il bianco è nero, il maschio femmina e così via. È in questo contesto che nascono carrierine politiche improvvisate ed è in questo contesto che i cavalli – e nei casi più sfortunati gli asini – possono ambire a un seggio prestigioso (sto parlando della logica clientelare che presiede nomine e collocamenti all’interno del palazzo, ma anche all’esterno). Se spingiamo alle estreme conseguenze il principio della forza come unico presupposto della politica, dovremmo essere poi costretti ad ammettere che è perfettamente fisiologica la presenza di un rappresentante di una forza di estrema destra, eversiva, in consiglio comunale. Aveva dalla sua parte la forza dei numeri. Una forza che a quanto pare gli dà il diritto di sproloquiare su fascismo e nazismo, di dirsi fieramente fascista, di squaccherare di “aule sorde e grigie” (quali esattamente?) e di affermare in un noto programma radiofonico che Hitler e Mussolini hanno fatto tante cose buone.

Basta avere la forza dei numeri, per cambiare la storia di segno, trasformare la verità in menzogna. Appunto. Tanto ci siamo abituati a questa logica perversa, che non riusciamo a opporvi nessuna solida certezza, nessuna convinzione spirituale, nessuna risposta o limite che possa tradursi in parola, pensiero e azione, nella sola sillaba che valga la pena pronunciare senza dubbio e esitazione, la sillaba che uscì dalle labbra di Catone e che oggi può ispirare come ieri: no.

(già in: "Alto Adige", 20 maggio 2015, p. 1).