Gesellschaft | Sudtirolo 1918/2018

Verso il melting pot

Umberto Gandini e l’addio al giardino zoologico della Storia.
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Foto: rina
Patrick Rina: Lei, caro Gandini, ha 83 anni. Vive in Sudtirolo dal 1947. Se dovesse sintetizzare gli ultimi cent’anni di storia locale, come e da dove partirebbe? 
 
Umberto Gandini: È una domanda difficile, ma se proprio dovessi sintetizzarli, sceglierei di farlo in modo giornalistico. Darei il seguente titolo agli ultimi cent’anni in Alto Adige/Südtirol: “La lunga marcia verso la pacificazione etnica”. Lo sviluppo dall’italianizzazione voluta dal fascismo alla collaborazione vissuta dei tre gruppi linguistici è stato lungo, tormentoso e tormentato. Però ci siamo arrivati, e questo è il nostro vanto. Possiamo essere felici che qui in provincia di Bolzano, rispetto a situazioni etnico-politiche analoghe in giro per l’Europa, ci sia stato un versamento di sangue minimo. E questo è il vanto dei sudtirolesi e degli altoatesini: di essere riusciti a vincere la tentazione della violenza in grandissima misura e di accantonarla definitivamente. La nostra popolazione – tedeschi, italiani e ladini – deve essere fiera di essere uscita dai drammi della storia senza troppi bernoccoli e senza troppi errori. 
 
 
Innanzitutto gli italiani non sono riusciti ad affrancarsi dalla mentalità fascista per tantissimo tempo. Ancora oggi ne risentiamo le conseguenze. 
Però di errori ce ne sono stati. Si pensi all’attivismo dinamitardo sudtirolese degli anni Sessanta, alla miope mentalità del plumbeo “siamo in Italia”, alla “convivenza rinviata” di oggi. 
 
Sbagliare fa parte della conditio humana. Vuole sapere quali sono stati, a mio avviso, i due errori più gravi (e forse inevitabili) che sono stati commessi in questa terra? Innanzitutto gli italiani non sono riusciti ad affrancarsi dalla mentalità fascista per tantissimo tempo. Ancora oggi ne risentiamo le conseguenze. I sudtirolesi, da parte loro, non hanno elaborato il nazismo e le Opzioni. Va ricordato che troppi sudtirolesi si sono fatti affascinare dalla croce uncinata. Finita la seconda guerra mondiale, far riuscire a capire ai sudtirolesi che bisognava uscire da quella cecità è stato estremamente difficile. Fino agli anni Sessanta e Settanta i pochi antinazisti sudtirolesi sono stati considerati poco più che dei banditi. Le forme di resistenza al nazismo qui da molti sono state viste e vissute come forme di tradimento del popolo tedesco. Friedl Volgger era finito al campo di concentramento. Nemmeno all’interno della Südtiroler Volkspartei gli hanno “perdonato” il suo trascorso da acerrimo nemico del nazismo. Anche il mitizzato Silvius Magnago diceva sostanzialmente di non lavare la biancheria sporca di famiglia, ma di buttarla in un cassonetto e di lasciarla lì. Gli italiani, dall’altra parte, dovevano e devono ancora oggi elaborare sinceramente i crimini commessi dal regime fascista in terra sudtirolese. Le elaborazioni tardive e simboliche, avvenute negli ultimi vent’anni, non hanno inciso molto. 
 
Lei tocca un ferro incandescente. Tanti sudtirolesi di lingua tedesca rimproverano agli italiani di non essersi distanziati dal fascismo e dai suoi simboli architettonici. Per la maggioranza dei bolzanini di lingua tedesca dover vedere ogni giorno il Monumento alla Vittoria è come dover passare sotto le forche caudine. Lei è conscio di questo fatto?
 
Sì, ne sono conscio. Però che sia chiaro: i monumenti fascisti facevano e fanno comodo anche alla destra populista tedesca che vorrebbe distruggere l’Arco di Piacentini. Il Papa non chiede che si abbatta il Colosseo perché lì ci ammazzavano i cristiani. La stessa cosa vale per il Monumento di Bolzano. Già nell’immediato dopoguerra sarebbe stato importante prendere un qualsiasi cartellino con delle spiegazioni storiche e recante la dicitura “Questo è un monumento fascista”. Basta, chiuso. Il colosso di marmo bianco poteva restare lì. Come detto: bisognava farlo già nel 1945. Invece no, i militari continuarono a fare le sfilate del 4 novembre per glorificare la vittoria italiana e la sconfitta austro-tirolese. Ribadisco il mio concetto: il disancorarsi dal pensiero fascista per gli italiani dell’Alto Adige nel dopoguerra è stato difficilissimo. La burocrazia civile e militare italiana aveva una vischiosità fascista paurosa – in parte ce l’ha ancora oggi. 
 
I sudtirolesi, da parte loro, non hanno elaborato il nazismo e le Opzioni. Va ricordato che troppi sudtirolesi si sono fatti affascinare dalla croce uncinata.
Parliamo ancora dei monumenti fascisti a Bolzano. L’apertura del museo sotto l’Arco di Piacentini e il depotenziamento del bassorilievo del Duce sono state operazioni intelligenti e importanti o semplici interventi al maquillage?
 
Beh, i politici e gli storici non hanno trovato la soluzione migliore, ma hanno almeno trovato una soluzione. Hanno storicizzato quei luoghi dal peso simbolico di piombo. Nessuno può più andare al Monumento alla Vittoria e dire che sia un inno marmoreo all’italianità. Questo vale anche per il bassorilievo di Piffrader. Quei luoghi dalla chiara connotazione fascista sono diventati e devono restare per sempre luoghi della memoria e della riflessione critica. 
 
Quei luoghi, però, da molti italiani vengono sentiti come luoghi italiani, come simboli della loro identità. Ecco: l’identità italiana. Come e di che cosa è fatta oggi in Alto Adige? 
 
Da bolzanino posso parlare soprattutto della mia città. Noto che gli italiani qui si sentono sempre di più di Bolzano. Questo ha facilitato l’incontro con i sudtirolesi. Le faccio un esempio palese: la squadra di hockey su ghiaccio HCB è di tutti, tutti – a prescindere dalla madrelingua – si identificano con i loro campioni di hockey, tutti i identificano con la squadra. L’hockey una volta era lo sport dei tedeschi, gli italiani, invece, giocavano a calcio. Non è più così. Gli italiani di qui continuano ad imparare abbastanza bene il tedesco, hanno capito l’utilità della padronanza della seconda lingua – anche in termini economici. Mi verrebbe da dire “It’s the language, stupid!”. 
L’hockey una voltaera lo sport dei tedeschi, gli italiani, invece, giocavano a calcio. Non è più così.
Parlando di padronanza delle lingue bisogna parlare anche del fatto che nelle vallate ci siano tanti ragazzi tedeschi che non vogliono imparare l’italiano. Il loro argomento principale è il seguente: “Perché devo studiare quella lingua straniera? Tanto tra qualche anno saremo di nuovo austriaci”. Quanto Le fanno male queste parole? 
 
Mi rendono tristi. L’Europa del futuro non ha bisogno di nuovi confini. Però qui in Alto Adige succedono delle cose paradossali. Una volta i sudtirolesi – quasi per dispetto da parte dello stato – venivano mandati a fare il servizio militare in Sicilia – un’esperienza di sicuro traumatica. Però lì questi ragazzi sudtirolesi imparavano l’italiano. Magnago, poi, riuscì a strappare alle autorità italiane l’addestramento reclute a Verona e il servizio militare a Brunico o a Silandro. Anche questo fatto ha allontanato i tedeschi dall’uso della seconda lingua. Lo so: nelle valli i giovani smettono di parlare l’italiano. Parlare questa lingua non è più vista come un’opportunità. Forse c’entrano anche i tanti problemi economici dell’Italia degli ultimi anni. Però vanno criticati anche gli italiani che vivono in questa terra: tanti liceali non sanno sillabare una parola in tedesco. La scuola purtroppo non insegna le lingue! È una verità scomoda, ma è una verità. Il modo migliore per imparare la lingua è la full immersion nell’altro mondo. Io manderei i ragazzi italiani di Bolzano o Laives per un mese in un villaggio sperduto della Val Pusteria. O parli in tedesco o crepi di fame. Ci vorrebbe questa “terapia d’urto”. 
 
La scuola di oggi, a Suo avviso, non insegna le lingue. La scuola bilingue e paritetica, proposta dai Verdi e dalle Destre italiane, ci riuscirebbe?
 
È una questione delicata. Prima di introdurre la scuola bilingue dovremmo trovare delle terapie per i tanti traumi del passato. Questi traumi ci sono stati da una parte e dall’altra. I sudtirolesi subiscono i soprusi fascisti. Gli italiani, in un contesto storico completamento diverso, per via dell’autonomia devono rinunciare a molti privilegi. Questo fa nascere in alcuni una certa voglia di fascismo. Dovremmo parlare di questo in modo franco. E ricordiamo sempre: la pace etnica in questa terra non è tanto frutto di una curiosità culturale, bensì è frutto dell’ottima situazione economica. Il giorno in cui in Alto Adige dovesse esplodere una crisi sociale grave e ci si dovesse accapigliare per un posto di lavoro ritornerebbero a galla tutti i risentimenti etnici del Novecento. 
 
E forse tanti sudtirolesi chiederebbero l’autodeterminazione e il “ritorno” alla madrepatria Austria.
 
È un modo facile di fare politica. Si sceglie sempre il messaggio più capzioso per ricevere tanti voti. La secessione nell’Europa unita non ha più tanto senso. In Sudtirolo litighiamo troppo spesso su delle stupidaggini. Mi viene in mente il famoso doppio passaporto. Posso dirlo apertamente? Lo considero una cretineria. La discussione su quel pezzo di carta obsoleto è un pretesto per rompere gli equilibri della pace etnica all’interno del contesto della nostra autonomia. Non solo la destra tedesca alza la cresta. Anche quella italiana sta crescendo – lo dimostra l’esito elettorale della Lega alle elezioni provinciali del 2018. Oggi sono più pericolosi i leghisti dei neofascisti. Salvini sveglia dei sentimenti viscerali. Su questi sentimenti sta costruendo una macchina da guerra che potrebbe cambiare anche l’Alto Adige. 
L’Europa del futuro non ha bisogno di nuovi confini.
Nella nostra provincia tante cose sono cambiate negli ultimi anni. Però le società parallele esistono ancora. L’élite intellettuale tedesca conosce e frequenta quella italiana. Ma la casalinga di via Resia a Bolzano forse non è mai stata a Durnholz, e – per fare un esempio “trash” – la contadina venostana non conosce Pippo Baudo. 
 
Questo è anche vero. Ma voglio dire che il diverso modo di vivere la vita può anche essere bello e interessante. I tedeschi festeggiano il Natale in un modo, gli italiani in un altro. Non vedo nessuna incompatibilità. Per pigrizia la casalinga di via Resia guarda solamente la tv italiana? Bene, può farlo, ma poi non deve lamentarsi se il suo tedesco ne soffre e se non si sente parte integrante della società altoatesina. Le differenze di mentalità nella nostra terra ci sono e forse ci saranno anche in futuro. Al momento qui non ci sono risse da osteria causate da motivi etnici. 40 e 50 anni fa questo era diverso. Ne parlai anche sull’Alto Adige. Se durante un litigio in osteria gli italiani offendevano i sudtirolesi chiamandoli “porci crucchi”, non succedeva nulla. Se invece i tedeschi dicevano “walsche Fåcken” agli italiani, finivano in corte d’assise per vilipendio alla nazione italiana. Questa era una grande ingiustizia. Oggi le risse da osteria non ci sono più. Se i due gruppi linguistici non ragionano con le legnate e i pugni, allora non ci sono grandi problemi. Il bolzanino va a casa e mangia la sua pastasciutta, il Sarntaler ritorna al maso e mangia i suoi canederli in brodo. Così si conservano i propri spazi personali, la propria cultura, le proprie abitudini. Ognuno deve avere il diritto di coltivare la sua parte. In futuro ci sarà più mescolanza, vedrà.
Ognuno deve avere il diritto di coltivare la sua parte. In futuro ci sarà più mescolanza, vedrà.
Le risse politiche però ci sono. Potremmo fare la fine della Catalogna spaccata in due tra separatisti e filo- madrileni? 
 
No, noi non siamo la Catalogna. Non ci conviene imitare le risse che ci sono lì. Se lo facessimo, andremmo in malora tutti – tedeschi, italiani e ladini. Penso che l’Alto Adige debba sbarazzarsi della zavorra politica del Novecento. Il nuovo secolo appena iniziato sarà il secolo della mescolanza, del melting pot sociale all’americana – questo vale anche per la nostra piccola realtà. D’altronde: cos’è il popolo italiano se non il meraviglioso frutto di un’enormità di mescolanze? Gli incroci culturali saranno ineluttabili e positivi. Vedrà che riusciremo a superare le paure e le frizioni di adesso. La nostra provincia non sarà più un giardino zoologico con delle gabbie etniche. Questo è il mio auspicio per il Sudtirolo del futuro.