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“Io sono razzista (e anche voi)”

Ospite nella redazione di salto.bz l’attore e drammaturgo Ascanio Celestini parla della periferia dimenticata, dell’esercizio della memoria e del male “sempre altrove”.
Celestini, Ascanio
Foto: Salto.bz

salto.bz: Celestini, con "Pueblo", il suo ultimo spettacolo teatrale, torna a parlare di periferia, cosa la affascina di questo, spesso scalcagnato, micromondo?

Ascanio Celestini: Buona parte delle cose che ho scritto ruotano intorno al posto in cui è nato mio padre, che poi è dove sono nato io, nella zona del Quadraro che si trova appena dentro il Grande Raccordo Anulare. E io oggi vivo dove mio padre si trasferì negli anni ’60, a Morena, vicino Ciampino. Tutta la mia vita sta in quei pochi chilometri, per dire: dalla finestra della camera di mio figlio si vede quella dove ho vissuto io da ragazzino. Fra le strade del Quadraro ho girato anche il mio secondo film, Viva la sposa (il primo fu La pecora nera, ndr). Quando penso alla periferia penso a quella che io conosco e proprio perché la conosco sono sicuro che non c’è un posto dove non esistono relazioni umane. 

Come viene trattata questa periferia, a suo parere?

Viene vista da fuori, trattata con la cultura del giardino zoologico. Ma non che non sia bella così, anche il giardino zoologico lo è, l’esotico è sempre bello, tutto quello che è strano è bello. Ci sono cose che non si conoscono, ma a cui diamo un significato. 

Quando la periferia la conosci perché ci vivi dentro allora semplicemente non esiste. Il significato diventa un elastico corto fra la cosa e la parola che la descrive. Le parole e le cose diventano quasi lo stesso oggetto, tanto che non c’è più bisogno di dirle, le cose. E infatti chi ci vive non parla più del luogo in cui vive.

Per esempio?

Artaud che vede il Barong gli dà un significato che in realtà non ha. Noi chiamiamo teatro balinese qualcosa che a Bali non chiamano teatro. E la stessa cosa può succedere a un balinese che viene in Italia, che non conosce la religione cattolica ed entra in chiesa, come decodifica quella valanga di segni? Parliamo in questo caso, di fatto, di un teatro molto contemporaneo, in cui c’è un’interazione vera, c’è una persona in costume, un palcoscenico, una scenografia, un testo, molti personaggi, gente che muore e resuscita. Non è un caso che la nascita del teatro contemporaneo sia completamente immersa nella sacra rappresentazione. Il presepio vivente è teatro, è spettacolo. E poi c’è una storiella che viene spesso citata quando si studia la commedia dell’arte.

Quale?

Due personaggi si trovano in una piazza di Napoli, da una parte Pulcinella che attira l’attenzione del pubblico e dall’altra il monaco col crocifisso in mano che predica alle panche vuote e che a un certo punto, in un impeto di rabbia, rivolge il crocifisso agli spettatori che lo ignoravano dicendo: “Ecco il vero Pulcinella, venite qui”, e questo è piuttosto esplicativo. Ma tornando alla periferia, quando tu la conosci perché ci vivi dentro allora semplicemente non esiste. Il significato diventa un elastico corto fra la cosa e la parola che la descrive. Le parole e le cose diventano quasi lo stesso oggetto, tanto che non c’è più bisogno di dirle, le cose. E infatti chi ci vive non parla più del luogo in cui vive. Che poi è quello che accade quando studiamo i documenti storiografici, gli elementi più rilevanti del nostro presente non ci sono perché non vengono detti, perché è superfluo dirli.

 

 

Non le piace parlare di "missione dell’artista", è così?

Diciamo che io non la vivo in questi termini, ma non è per svalutare il lavoro che faccio. Penso semplicemente che sia “pericoloso” quando lo scrittore scrive un testo per denunciare, non so, la condizione di vita dei minatori in Perù sotto forma di romanzo, di film, o di spettacolo teatrale. Prima di tutto perché rischia di fare una cazzata, dal momento che è talmente importante il concetto che vuole mettere a disposizione degli altri che non è più importante come lo fa, e allora è verosimile che ne risulti una denuncia forte ma uno spettacolo inguardabile che l’autore difende solo perché per lui era essenziale far passare il messaggio di base. A quel punto, dico io, meglio fare un’inchiesta, scrivere un articolo di giornale. Un artista fa altro. Faccio un esempio: stanno terminando i lavori dell’ennesima commissione d’inchiesta sul caso Moro, ma non è che poi su questo si fa uno spettacolo teatrale, non penso possa essere avvincente, ecco. 

Ricordo che quando ero in tour con due spettacoli sul teatro di guerra, "Radio clandestina" e "Scemo di guerra", incontravo continuamente persone che mi dicevano: "Ma anche da noi c’è stato un eccidio e non ne ha ancora parlato nessuno". Ma perché ne dovremmo parlare? Io per esempio ho parlato delle Fosse Ardeatine perché quell’evento storico aveva un peso nel presente.

Guai a parlare di teatro di impegno civile, dunque.

Fin dai tempi dell’università mi immaginavo il teatro "civile" fatto da tutta gente a modo, ben pettinata, educata e quello "incivile" fatto da attori che recitavano l’Amleto con le dita nel naso. Il punto è: perché devo vedere un brutto spettacolo solo perché è fondamentale fare quella determinata denuncia? Riflettiamoci, non c’è argomento che non sia stato portato a teatro, il Vietnam, la guerra di Corea, Chernobyl…

Il Vajont, con Marco Paolini.

Uno spettacolo strano, quello, ma non di denuncia, in ogni caso molto bello, importante, anche se diverso rispetto ai suoi precedenti lavori. Mi ha ricordato il teatro didattico di Brecht. Ricordo che quando ero in tour con due spettacoli sul teatro di guerra, Radio clandestina e Scemo di guerra, incontravo continuamente persone che mi dicevano: "Ma anche da noi c’è stato un eccidio e non ne ha ancora parlato nessuno". Ma perché ne dovremmo parlare? Io per esempio ho parlato delle Fosse Ardeatine perché quell’evento storico aveva un peso nel presente. Alessandro Portelli, che ha scritto il libro L’ordine è già stato eseguito, sul quale ho lavorato per la scrittura di Radio clandestina, racconta gli avvenimenti di due giorni, sostanzialmente, il 23 e il 24 marzo del 1944, ma per farlo comincia dalla metà dell’Ottocento e arriva fino al presente, perché la memoria è sempre qualcosa che racconta il presente, cioè racconta quello che io oggi ricordo, a chi interessa quello che è successo 70 anni fa?

Il male sta sempre da qualche altra parte. Sono "loro" quelli che ammazzano le donne. Sono "loro" i razzisti. Ma siamo tutti razzisti, se io non lo fossi non capirei nemmeno che quel comportamento è razzista o violento. Io conosco personalmente cos’è il razzismo e la violenza.

C’è anche il rischio di inciampare in un esercizio consolatorio?

È così. Oggi ci diciamo: guarda quant’eravamo infami quando gasavamo gli zingari e gli ebrei, adesso non siamo più così, adesso ci portiamo i bambini a vedere Auschwitz. Adesso siamo brave persone. C’è questo confine, ora. Come diceva Gaber "gli americani hanno le idee chiare sui buoni e sui cattivi, i buoni sono loro!". Andiamo in televisione e facciamo i programmi contro la mafia, e i mafiosi sono sempre gli altri. Il male sta sempre da qualche altra parte. Sono loro quelli che ammazzano le donne. Sono loro i razzisti. Ma siamo tutti razzisti, se io non lo fossi non capirei nemmeno che quel comportamento è razzista o violento. Io conosco personalmente cos’è il razzismo e la violenza. Mi ricordo quando da bambino vedevamo film come Indovina chi viene a cena? e non capivamo questo razzismo degli americani nei confronti dei neri. Non lo capivamo perché non ce li avevamo dentro casa, ma facevamo la stessa cosa con i meridionali. E oggi che i neri sono arrivati anche da noi è tutta un’altra storia. 

L’impronunciabile "N-word".

Quando Gianni Minà fece la sua celebre intervista a Fidel Castro gli chiese se volesse sapere prima le domande. E Fidel Castro disse una cosa come: "Abbiamo fatto la rivoluzione, possiamo aver paura delle parole?". E noi invece abbiamo questo imbarazzo nell’utilizzare certi termini.

Mi chiedo: dov’è la violenza? Perché non inizia nel momento in cui mi alzo e prendo a schiaffi quel ragazzo, non inizia un attimo prima in cui lo mando a quel paese, ma è nella condizione che viviamo, in quella di subalternità in cui lui vive a prescindere dal fatto che i calzettoni io glieli compri o meno.

Banalmente perché è facile essere bollati come razzisti.

Ci sono persone che riescono a governare questo istinto razzista e quelle che non ci riescono o non vogliono farlo. Qualche tempo fa ero a Sanremo per mettere in scena uno spettacolo, mi si avvicina un ragazzo africano che vende calzettoni di spugna, per evitarlo, ma con "garbo", mi giro di spalle. Lui mi fa: “Sa, l’ho riconosciuta, ho visto il suo spettacolo in televisione, le volevo fare i complimenti”, mi stringe la mano e se ne va. E io mi sono sentito doppiamente in imbarazzo. Ma mi chiedo: dov’è la violenza? Perché non inizia nel momento in cui mi alzo e prendo a schiaffi quel ragazzo, non inizia un attimo prima in cui lo mando a quel paese, ma è nella condizione che viviamo, in quella di subalternità in cui lui vive a prescindere dal fatto che i calzettoni io glieli compri o meno. È come con i "vu cumprà" sulla spiaggia, che bisogna sempre tirare sul prezzo, non si sa per quale motivo. Nel momento in cui il venditore ambulante mi chiede 20 euro io decido se darglieli, non darglieli, mandarlo a quel paese, alzarmi e prenderlo a calci, tanto lui non si ribella, non mi denuncia perché l’ho preso a calci, non succede quasi mai, perché la mia condizione è uno scudo. Gli ospedali psichiatrici lo insegnano: quasi mai è successo che figurarsi un medico, ma anche un infermiere venisse picchiato, hanno lo scudo, il camice. Ma poi a cosa serve il camice per uno che fa un lavoro in cui non ci si sporca?

È una specie di divisa.

Se non sbaglio era Antonioni che nel suo libro Quel bowling sul Tevere scriveva che in Italia anche un gelataio pensa di avere un potere solo perché ha la divisa. Il problema è la relazione fra chi ha il potere e chi non ce l’ha. 

E come si gestisce quel potere?

Se io quel potere ce l’ho devo cercare il più possibile di trasformarlo in una responsabilità, e certamente non è facile. Quando sono andato a Cuba in viaggio di nozze, appena sceso dal taxi, a L'Avana, un anziano si è messo a suonare due bastoncini di legno, ha cantato una canzoncina per 30 secondi e poi ha allungato la mano chiedendo un dollaro. Allora tu pensi: glielo do questo dollaro? In fondo non mi costa niente, pensi, quella persona ne ha bisogno. Un medico di dollari ne guadagna 25 al mese, può smettere di esercitare e trovare 25 persone che dopo 30 secondi di canzoncina gli danno un dollaro, per quale motivo dovrebbe continuare a curare la gente se può suonare due bastoncini per strada e guadagnare gli stessi soldi? Ciò a parte, non posso dire che una persona è razzista perché il dollaro a quell'anziano non glielo dà o perché lo manda a quel paese, perché la mia condizione è più vicina a quella di chi lo straniero lo prende a calci rispetto a quella dello straniero che i calci li prende. 

Bisogna cercare di entrare il più possibile nella vita, nel corpo, nella prospettiva dell’altro, e di questa prospettiva te ne parla chi la vive e chi la vive in una condizione di subalternità.

Tutto sta insomma nel domare i propri demoni.

Bisogna cercare di entrare il più possibile nella vita, nel corpo, nella prospettiva dell’altro, e di questa prospettiva te ne parla chi la vive e chi la vive in una condizione di subalternità. Quando Gianni Bifolco, padre di Davide, parla del giudice che dovrà giudicare l'assassino del figlio ci dice proprio questo. Bifolco... sembra uno dei cognomi di quelle vie improbabili della periferia in cui si trovano Totò e Ninetto Davoli nel film di Pasolini Uccellacci e Uccellini, e sono tutti nomi buffi come "via Lillo Strappalenzola scappato di casa a 12 anni". Che poi è un po’ così, perché in periferia ci finiscono gli ultimi che sono morti o quelli più anonimi, mentre i morti delle Fosse Ardeatine, per esempio, i generali e i notabili, stanno tutti in zona Medaglie d’oro, via Trionfale, che non è proprio centro storico perché non potevano mica cambiare il nome a piazza Navona, ma certo non è Spinaceto dove ci sono i nomi di quelli che non contano.

 

 

Ma dicevamo di Davide Bifolco.

Aveva 16 anni quando è stato ammazzato, nel 2014, alla periferia di Napoli. Era in sella a un motorino insieme ad altri due ragazzi quando due carabinieri su un’Alfa 164 che cercavano un latitante, tale Arturo Equabile di 25 anni, un soggetto non particolarmente pericoloso, incrociano il motorino e convinti che fra i passeggeri ci fosse il ricercato, li speronano contromano sulla strada del rione Traiano. Davide cade e si spacca il ginocchio, un altro cade di faccia e resta a terra e quello che guidava il motorino cade in piedi, scappa e si salva. Uno dei due carabinieri scende dall’Alfa, inciampa, gli parte un colpo e colpisce al cuore Davide uccidendolo. Difficile che sia stato un incidente, ma diamo per scontato che sia andata così. Come dicevo il padre di Davide, Gianni Bifolco, parla del giudice che dovrà giudicare il carabiniere e dice: "Io vorrei stare una notte nel corpo, anzi nell’anima di questo giudice e vorrei che lui stesse nella mia condizione. Una cosa come quella successa a Davide sarebbe potuta accadere al Vomero? A un figlio di un magistrato sarebbe potuto succedere?". Ecco, il fulcro del discorso sta tutto qui.

Ed è possibile questa "immedesimazione"?

Deve esserlo. Perché altrimenti della periferia continuiamo a parlare sempre da fuori, e cos’è la periferia, cos’è il confine, chi sono loro, gli altri, quello è razzista, quello è omofobo, quello è nazista, quello è fascista, quello ruba. E quindi io sono onesto, io sono senza macchia. A me dà fastidio quello che viene a chiedermi i soldi, perché mi mette in una condizione di difficoltà, ma io devo cercare di capire la sua condizione e cercare nella sua condizione anche una parte della mia, capire quale condizione di subalternità vivo io e quale ho vissuto nella mia vita. Poi non è detto che le cose cambino, però questo non è il compito dell’arte che deve invece aprire le prospettive, magari col rischio di creare più problemi che altro, ma intanto quegli stessi problemi danno la misura della concretezza delle relazioni.