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Politica | Avvenne domani

La memoria dell’esodo

I profughi da Istria e Dalmazia in Alto Adige

Negli archivi del Comune di Bolzano esiste un incartamento, denominato "Fondo Negri", che raccoglie dati preziosi sulla presenza dei profughi dalmato-giuliani in Alto Adige. Fu creato negli anni del secondo dopoguerra, quelli che videro l'arrivo, in provincia di Bolzano, di un consistente numero di coloro che avevano dovuto lasciare l'Istria e la Dalmazia per sfuggire alle persecuzioni del regime comunista di Tito. Alloggiati provvisoriamente in alcune strutture di Trieste, presero poi strade molto diverse,una delle quali portava proprio verso Bolzano.

Martedì scorso, in occasione dell'incontro promosso dal Centro per la Pace nella sala di rappresentanza del Comune di Bolzano e dedicato per l'appunto ai temi della memoria e dell'esodo dalmato-giuliano, lo storico Giorgio Mezzalira, che si è occupato, proprio su incarico del Comune di esaminare le carte d'archivio ha esposto alcune osservazioni assai interessanti.

I numeri innanzitutto. Dal 1946 in poi, e sono gli anni nei quali avviene la grande migrazione forzata dalle terre del litorale adriatico abitate da popolazioni di lingua italiana, arrivano nella nostra regione oltre 2000 profughi, una buona parte dei quali si stabilisce in Alto Adige.

Si tratta, per la maggior parte, di nuclei familiari appartenenti alla borghesia, piccola ma anche medio-alta, la cui presenza, anche se numericamente non elevatissima, viene ad innervare significativamente un'immigrazione italiana che, sino a quel momento, aveva visto soprattutto la presenza di nuclei familiari del ceto popolare. È un fenomeno, dunque, che ha avuto significative ripercussioni sulla formazione del gruppo linguistico italiano. Basti pensare, solo per fare un esempio, che alla serata di martedì hanno portato il loro contributo di ricordi e di conoscenza due appartenenti a famiglie di origine dalmato-giuliana che in tempi più recenti sono giunti a ricoprire la carica di sindaco di Bolzano: Giovanni Salghetti Drioli che resse il Municipio per ben dieci anni e Giovanni Benussi, che lo sconfisse nel 2005 per soli sette voti, ma che poi dovette dimettersi non avendo una maggioranza capace di sostenerlo.

Particolare attenzione, nella relazione di Mezzalira è stata dedicata all'impatto che l'immigrazione degli esuli dall'Istria e dalla Dalmazia finì per avere su una realtà forse meno dolorosamente segnata dalla violenza politica ma non meno complessa, come quella altoatesina di quegli anni. Fu uno dei tanti momenti, nel 900, in cui la questione altoatesina venne ad intrecciarsi con quella del confine orientale d'Italia, in un rapporto di dialettica politica, di analogie importanti e di non meno rilevanti differenze, che fu ben delineato nella sua fondamentale opera " Im kampf gegen Rom" dal  giornalista e storico Claus Gatterer.

L'Alto Adige in cui approdano, dopo lunghe traversie, gli esuli è una provincia profondamente segnata dall'oppressione fascista, da un altro esodo, quello cui sono stati costretti, nel 1939, i sudtirolesi con l'accordo nazifascista sulle opzioni di cittadinanza. Non è un caso e non è un paradosso che, come ha ricordato Mezzalira, nella Bolzano semidistrutta dalle bombe, gli esodati dalmato-giuliani si trovino condividere spazi assai precari in qualche ex caserma proprio con i rioptanti sudtirolesi che sono ritornati nella loro terra. Gli uni agli altri si trovano alle prese con una realtà molto difficile. Non ci sono le case, ma non ci sono nemmeno molti posti di lavoro e perfino il cibo scarseggia.

L'inserimento dei profughi presenta anche un problema di carattere politico. Sono gli anni nei quali comincia a manifestarsi, tra la popolazione sudtirolese, la convinzione che l'immigrazione italiana non sia affatto cessata con la fine del fascismo ma che continui, con l'obiettivo ultimo di mettere il gruppo tedesco in una condizione di minoranza anche numerica. È una teoria che troverà poi la sua estrema sintesi nel concetto di " Todesmarsch" elaborato dal Canonico Gamper. In questo clima politico anche l'arrivo dei profughi, che pure, come si è visto, è numericamente abbastanza limitato, viene visto con sospetto. D'altronde queste famiglie, provenienti da un territorio facente parte, sino a non molto tempo prima, dai territori del vecchio impero austroungarico, vengono ritenute molto più idonee di altre ad adattarsi ad una realtà come quella altoatesina, non solo per la diffusa conoscenza della lingua tedesca, ma anche per una comunanza di stili di vita e di tradizioni culturali.

L'arrivo in Alto Adige dei profughi avviene dunque in condizioni difficili. Il loro inserimento è facilitato dall'azione delle prefetture ma anche soprattutto dal costituirsi, a Bolzano come altrove, di associazioni che li raccolgono, che tengono i contatti con le autorità centrali e periferiche, che esercitano un ruolo di assistenza fondamentale soprattutto nei primi anni. Poi, gradualmente, assistiamo all'integrazione nel tessuto sociale. In Alto Adige, come in altre zone del nord Italia, il ritorno delle famiglie esodate ad una vita pressoché normale è più rapido che in altre zone. Alcuni campi profughi restano aperti purtroppo per molti anni. Non si rimargina facilmente nemmeno la ferita che nasce dalla radicata convinzione di aver subito una punizione ingiusta, di aver dovuto abbandonare la terra degli avi per sfuggire ad una persecuzione violenta e priva di qualsiasi motivazione giuridica. Una ferita ancor più dolorosa per gli episodi di ostracismo e di rifiuto cui i profughi vanno incontro al loro arrivo in Italia, per quella cortina di silenzio che cala sulla loro vicenda e che è durata sino ad anni assai recenti. È un aspetto, non marginale certamente, di quella più generale rimozione che, in Italia, ha riguardato molti aspetti drammatici e controversie del periodo bellico: dalle stragi nazifasciste i cui fascicoli giudiziari sono stati occultati per decenni in un armadio presso la Procura Militare di Roma, all'eccidio della Divisione Acqui a Cefalonia, dai crimini di guerra gravissimi compiuti dai militari italiani proprio nei Balcani molti altri aspetti di una vicenda storica che si è preferito dimenticare.

Oggi, grazie anche di ricerca da parte di storici meno prigionieri di un passato di forti contrapposizioni politiche e nazionalistiche, su tutte queste vicende si apre un dibattito forse non ancora sereno ma più informato. Non si tratta, come ha opportunamente affermato durante la serata di martedì Giorgio Mezzalira, di costruire l'utopia di una memoria condivisa che non esiste e non esisterà mai, ma di coltivare un profondo rispetto per la coesistenza di memorie diverse, spesso opposte, ma ognuna degna di andare a formare un quadro complessivo dei vicende sulle quali la storiografia deve ancora scrivere molte e interessanti pagine.