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“Io salgo dalle semirurali...”

L'arte “dello strada facendo”, essere presenti in situazioni nuove partendo dal passato, cosa che richiede delle nuove responsabilità e delle nuove curiosità.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Bottega di Cultura

L'uomo nella foto  si chiama Giancarlo Burato. Il ciclista nella foto del manifesto indicato con un sorriso è lo stesso Burato all'età di 20 anni, di fronte alla sua casa: “Le semirurali”. Quella che ha scattato la foto sono io, una cittadina albanese, e mi ritengo una recente "particella" di Europa Novecella dal 2015.

Non ricordo se fosse il 1960 o il 1961” , scrive Sergio Camin nel suo testo critico del progetto “Io salgo dalle semirurali” , descrivendo quando la prima volta, all'età di dieci o undici anni con altri due amici una domenica mattina si incamminarono per la prima volta verso Don Bosco. Benché gli avessero spiegato la strada, fu solo grazie a uno di loro, a Carlo, che aveva uno zio che abitava in via Torino, che arrivarono a destinazione. Così scoprirono un altro campo da calcio, altri bambini, altre case e orti. Per Sergio e gli altri due quel posto era nuovo, un altro luogo, giacché, come spiega Sergio Camin, “eravamo all'estero”.

Quando avevo 12 o 13 anni ci spostammo in una nuova casa, dal Museo, che noi consideravamo città, all'“Entrata di Durazzo” in periferia. Un quartiere nuovo a fianco della ferrovia, da cui si vedeva una parte del Porto. Il nostro palazzo era l'ultimo della fila, dopodiché dietro c'era un grandissimo campo paludoso che in lontananza confinava, tramite un recinto alto di canneti fitti, con un altro spazio a noi sconosciuto e misterioso. I genitori, per tenerci lontani, ci dicevano che là dietro c'era della gente strana, gente che era meglio non conoscere. Ovviamente una decina di noi decise, un giorno d'estate, di oltrepassare the dead line in gran segreto, muniti di cibo, acqua e stivaletti di gomma, verso le dieci di mattina. Ci dirigemmo verso “l'estero”. Tornammo la sera tardi, sporchi e sorpresi. Niente di strano c'era oltre i canneti. Un sacco di piccole rane che saltavano, disturbate dai nostri stivaletti, e un esercito di cicale e locuste. Ma la curiosità diventò una liberazione dalla paura. Avevamo oltrepassato il confine, e avevamo scoperto un altro luogo così come lo descriverà in seguito Camin: “Un altro luogo, ma oramai ci era chiaro, che non era all'estero”.

Io ci sono stata il 16 dicembre scorso alla Botteghe di Cultura Don Bosco, quando ha avuto inizio il progetto “Io salgo dalle semirurali”, un evento d'arte partecipativa, in cui due artisti albanesi, Arta Ngucaj e Arben Beqiraj, collaborano con il quartiere, invitandoci ad una gita storica - artistica partendo dal Presente verso il Passato per “conto” del Futuro. Quella sera, appena dopo il coro lirico "Giuseppe Verdi" ho incontratto Gabriele Antinarella, ottantenne, per molti “Lele” , “legittimo proprietario” della locuzione “Io salgo dalle semirurali non discendo dalle semirurali” . Noto come “il barbiere”, nella sua vitta aveva fatto altre mille cose. L'artista, l'archivista, il pittore, e dopo il pensionamento aveva creato pure una accademia. Era un uomo assai energico e, mentre parlava con me, salutava i suoi amici settantenni definendoli  “gioie ” e “ bambini”. Mi ha descritto come suo padre, che lui venerava, si alzava all'alba per andare al lavoro a piedi e di quando tornava la sera tardi. Di come tutti i figli si mettevano in fila per salutarlo prima di andare a letto. Mi raccontava della sua mamma e le donne del quartiere che condividevano il quotidiano coltivando l'orto. Della sua crescita, e di come la povertà in questi luoghi si era dimostrata una ricchezza. Ho condiviso con lui la stessa preoccupazione per cui le storie sono mute e valgono poco se rimangono chiuse dentro i musei, e che tutti gli abitanti del quartiere erano dei musei, dei musei viventi e parlanti. Ci offrivano loro stessi per raccontare il vivere, e oltrepassare le linee.

Immaginare la parte “semi” del rurale di un posto, per chi come me è arrivata negli anni '90, richiede una forma di curiosità artistica. Questo per illuminare e tinteggiare i fatti storici, le narrazioni della gente che lì ha vissuto. Infatti i quartieri sono una forma d'arte vivente, un sognare-rurale, un osare-rurale, una specie di dea metà uomo e meta animale che vive incorporandosi nella vita dei residenti, delle strutture, della vegetazione, della mente.

Arta Ngucaj e Arben Beqiraj vengono da esperienze artistiche forti, provocatorie, e non è un caso il loro nome d'arte Scafisti Scafati, un gioco di parole che richiama i “viaggi” della fortuna degli albanesi verso le coste italiane, di tante vite perse e tante giustizie sospese. 

Diversamente dalle loro opere il progetto della Botteghe di Cultura si affacciava sul quartiere accogliente come una casa di speranza. Tutto rievocava tregua, i cuscini comodi e i colori di arcobaleno, il tè caldo sempre pronto e le tazzine delicate. Assai confortevole per essere solo il guscio dell'arte in movimento. È per questa ragione che la prima volta che sono stata invitata da loro non avevo afferrato il filo conduttore e avevo frainteso il loro sentirsi a proprio agio, in una sorta di serenità rilassata in un quartiere a prima vista qualsiasi. Successivamente, altre volte, ho visto cittadini entrare e uscire come si fa a casa propria, con i bambini per mano, giovani, anziani, donne, di differenti provenienze.

L'arte del consueto, l'arte “dello strada facendo”, essere presenti in situazioni nuove partendo dal passato, cosa che richiede delle nuove responsabilità e altrettanta curiosità. In quella bottega il quartiere mi ha svelato una parte importante della sua vita, e al ritorno, percorrendo Via Montecassino verso Viale Europa mi sono sentita protetta, rassicurata. È un sentimento di cui necessitano più di ogni altra cosa i residenti nuovi, quelli che sono sempre tristi con l'avvicinarsi delle feste di fine anno, e hanno bisogno di sentirsi a casa. Giorni dopo, di conseguenza, mi sono precipitata nelle letture sulla storia di Bolzano. Cosicché, tra una ricerca e l'altra, ne ho trovata una a parer mio molto interessante. Racconta di come un signore di nome Bertoldus de Pigalaçio e sua moglie Diamota hanno venduto al signore Bertoldus Nef una mezza cantina murata a Wangg-S. Giorgio in Leitach a nord di Bolzano, e di come hanno concesso a Ropretus Murarius de Banco la licenza di assegnare all'acquirente il possesso della cantina. Mi rendo conto che sembra un fatto comune, ma non lo è, visto che è datato 2 aprile 1223, a Bolzano.