Politica | Intervista

La situazione in Iraq? Un vero delirio

Lo sguardo disincantato del sociologo di origine irachena Adel Jabbar traccia l’identik del dramma in atto nel suo paese. Che nessuno sembra in grado di poter arrestare.

Adel Jabbar, come sta vivendo questi giorni caratterizzati dal grave dramma in atto nel suo paese d'origine?
Cerco di capire. E per capire quello che succede sono necessarie due premesse.
1) Gli stati presenti oggi nella zona derivano dalla spartizione che avvenne subito dopo la prima guerra mondiale di una parte del territorio dell’impero ottomano. In questi giorni si parla molto del centenario della prima guerra; ebbene: la situazione in Iraq oggi è ancora una delle conseguenze di quel conflitto. Le entità statuali nacquero in quell’epoca molto deboli, per esplicita volontà da parte delle potenze vincitrici. 
2) Negli ultimi 100 anni gli stati nella zona sono stati governati da elite tutto sommato caratterizzate da ’simpatie’ occidentali, anche se con diverse sfumature, e quindi subalterne per definizione. 

Quali sono stati i difetti principali di questi governi?
Si è trattato di esperienze illiberali, sostanzialmente incapaci di essere inclusive. Larghe fasce della popolazione sono rimaste dunque ai margini e non si è mai lavorato politicamente per ottenere il consenso di questa gente. 
Stati deboli con progetti fragili hanno dovuto ricorrere a forme dispotismo, hard o soft a seconda dei casi, per tenere sotto controllo la situazione. 

E tutto questo ha prodotto una continua instabilità…
Sì, con colpi di stato, situazioni di guerra permanente o periodica, terrorismo di vario genere. Si tratta di fenomeni che vanno avanti da 100 anni, niente di nuovo. 
 
E in Iraq nello specifico cos’è successo?
La lunga dittatura ha di fatto prosciugato la società civile e la sua vitalità. La società è come se fosse entrata in coma e non ha potuto esprimere le sue potenzialità. Dopo il lungo embargo e quindi l’invasione americana del 2003 la fragilità si è trasformata in un vero e proprio vuoto. Lo stato ha manifestato per così dire la sua inesistenza.

E in questa situazione è stato impossibile innestare una democrazia.
No. Perché ciò avvenga è necessaria la partecipazione di ceti, clan, fasce della popolazione. E ciò non è avvenuto provocando un ritorno, nella popolazione, alla cosiddetta ‘appartenenza primaria’. Sto parlando di famiglia, clan, tribù, confessione religiosa. Il progetto politico messo in piedi dopo l’occupazione americana non ha fatto altro, allora, che istituzionalizzare la precarietà. La rivalità tra le appartenenze primarie ha impedito di sviluppare un progetto complessivo. 

Nessuna crescita politica, dunque. 
L’appartenenza primaria assunta come modello istituzionale ha frammentato ancora di più la società ed ha impedito la formazione di una coscienza politica comune. 

“Preferisco essere la testa di un topo, piuttosto che la coda di un leone” 
(proverbio spagnolo)

E in questo contesto qualche mese fa ha preso piede la pericolosa esperienza del califfato islamico Isis. 
Questa esperienza non è avulsa dalla situazione, ne è un prodotto. Bisogna tenere presente la dinamica del vittimismo che ha avuto un ruolo molto importante in questa situazione.

In che senso?
Il cardinal Martini diceva che viviamo in una società fatta tutta di minoranze. Ma qui il nodo cruciale sta nel fatto che se la minoranza viene associata alla percezione di essere vittime, questo porta a giustificare l’aggressione nei confronti dell’altro. E negli 11 anni dall’occupazione americana in Iraq è proprio avvenuto questo fenomeno. Una lotta per andare al potere ai danni degli altri, insomma. Questi 11 anni hanno provocato anche una grande ostilità nei confronti del progetto politico promosso dagli americani ed anche della frammentazione. E il governo è stato visto come una banda tra le bande. In questa contrapposizione il più violento, naturalmente, alla fine è quello che riesce a farsi valere. 

Qual è la situazione nel nordovest del paese? 
E’ controllata da varie milizie, così come il resto del paese. Nell’area nordoccidentale dov’è in atto una sorta di tsunami confessionale e indentitario, ha trovato terreno fertile anche quella che io chiamo una multinazionale del terrore. Che è collocata in una zona che presuppone un progetto geopolitico che fa pensare a complicità esterne. 

Quei gruppi sono eredi di Al Qaida?
Io quelle sigle preferisco non usarle. Ne hanno bisogno i media per semplificare le cose, forse. 
Quello che è certo è che la guerra contro il terrorismo innescata dopo il 2001 non solo non ne ha provocato la scomparsa, ma ne ha invece causato la diffusione in tutta la grande area mediorientale ma non solo. Oggi il terrorismo è molto forte infatti anche nel Sahel e in molti paesi dell’Africa occidentale. 

Che fare per arginare il fenomeno? Chi sostiene economicamente questi gruppi?
C’è una regia senz’altro, ma a questa domanda io non so rispondere. La mia ipotesi è che ci troviamo in una fase di assestamento geopolitico a livello globale e nessuno oggi è in grado di venire a capo della situazione. Nel momento in cui non c’è chiarezza, allora ci si concentra sulla gestione della confusione. Chi si sveglia oggi deve sapere comunqie che quello che quello che avviene oggi in Iraq ha preso il via 10 anni fa. La pulizia etnica è iniziata allora. 

Anche i media hanno le loro responsabilità in questo senso.
Sì, spesso prendono piede delle ‘semplificazioni’ che hanno lo scopo di impedire di ragionare sulle origini strutturali del problema. In occasione dell’intervento del 2003 la motivazione era stata quella delle armi di distruzione di massa ed ora invece si parla di intervento umanitario. In realtà tratta di alibi. In questi giorni il papa ha avuto occasione di dire che ci troviamo in una situazione di ‘guerra diffusa’. Una guerra diversa, nuova. Nella quale però restano il commercio delle armi e l’odio e il rancore tra le persone. 

Quale futuro vede per il suo paese, l’Iraq?
Sinceramente più che per il mio paese sono molto più preoccupato per la salvaguardia dei diritti delle persone. Lì ed altrove.