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Fotografo quindi sono

Claudia Corrent, fotografa bolzanina, sul potere dell’immagine e l’assuefazione al dolore, la frenesia del presente, l’Alto Adige in divenire e tutto il mondo fuori.
Corrent, Claudia
Foto: Claudia Corrent

“La fotografia per me è una risposta positiva e funzionale, un pacificarsi con quello che lo sguardo incontra”. Claudia Corrent, 37 anni, bolzanina, è una fotografa freelance e un’educatrice. Tiene laboratori didattici e, messa in tasca la laurea in Filosofia, sta ora frequentando la magistrale. Negli interstizi “tante idee e troppo poco tempo per realizzarle”, o quasi, visto che in breve tempo i suoi scatti sono finiti su giornali e riviste prestigiose come Vanity fair, Der Spiegel, Die Zeit, Corriere della sera, Repubblica, National Geographic, Il Post. Passando, solo nell’ultimo periodo, per due mostre personali negli Stati Uniti, all’Istituto italiano di cultura a San Francisco e in Russia alla Space Gallery di Nižnij Tagil. E per un nuovo progetto di cui ci racconta con passione fanciullesca.

 

salto.bz: Claudia, sei fotografa autodidatta ed educatrice, un po’ come Vivian Maier, la celebre (oggi) fotografa-bambinaia americana, te l’hanno mai detto?

Claudia Corrent: No [ride]. Lei è fantastica, e le sue sono immagini bellissime. 

Non c’è però nei tuoi scatti quell’inquietudine caratteristica di Maier, se pensiamo ai tuoi paesaggi da cartolina “indie” e a quei toni tenui traspare piuttosto una versione edulcorata della vita.

I miei riferimenti sono quelli della fotografia del paesaggio italiana degli anni ’70-’80. Luigi Ghirri in primis è fra i miei maestri. Mi interessa la particolarità dei luoghi, dare uno sguardo differente a un posto conosciuto. Insulae, il lavoro su Venezia, città che amo tantissimo, è nato con l’idea di mostrare qualcosa di non scontato, quindi non la solita piazza S. Marco piena di turisti e piccioni, di cercare un colpo d’occhio più intimo. Trovare spazi più silenziosi e tranquilli. E ho notato sempre di più che fotografare mi calmava. 

Un effetto terapeutico inaspettato?

Esatto. Quasi un mettere ordine, un pacificarsi con quello che lo sguardo incontra. 

È questo che ti attrae della fotografia?

È il grande potere che ha. Siamo bombardati di immagini ogni giorno, ma cosa ne facciamo, poi? Quale significato gli diamo? Che fine faranno?

E in questa sovraesposizione di immagini, in questa ingordigia visiva, come fa un fotografo a lasciare traccia, a creare qualcosa di duraturo?

Deve studiare molto, guardare il lavoro degli altri, io credo. Rinnovare il suo sguardo. La fotografia nasce dal bisogno personale di capire. Quello è il mio linguaggio ed è per me una risposta positiva e funzionale. 

Significa anche perseguire a livello artistico la disciplina della verità?

Rispondo con un esempio: sto facendo dei laboratori ai ragazzi sul reportage e sull’autoritratto. Ho chiesto loro: secondo voi le foto mentono o dicono la verità? Prendiamo i reportage, se vedo 30 fotografie di bambini siriani fra le macerie, alla 31esima l’empatia sfuma, perché prima di quell’immagine si sono susseguite molte altre iconografie simili. E allora quella foto in qualche modo scende, ahimè, di “valore”.

Siamo bombardati di immagini ogni giorno, ma cosa ne facciamo, poi? Quale significato gli diamo? Che fine faranno?

Anestetizzati di fronte alla pornografia del dolore.

Ecco. E non c’è nulla di nuovo nella rappresentazione del dolore. La storia dell’arte è piena di immagini legate al dolore, la differenza sta nella veridicità del mezzo, si ha infatti la convinzione che la fotografia dica il vero mentre la pittura sia interpretazione. C’è questa dicotomia, questo gap. Ma anche la fotografia è interpretazione, sebbene si utilizzi un mezzo di riproducibilità tecnica. È molto interessante ragionare sulle immagini, quello che dobbiamo continuare a fare è capire cosa queste vogliono comunicare. 

In questo senso i social sono il nemico?

Oggi, lo sappiamo, è molto facile creare immagini, c’è una semplificazione incredibile, basta uno smartphone, si scatta una foto, si applica un filtro e il gioco è fatto. A volte dispiace vedere quanto tale pratica sia banalizzata. Questa forma di democratizzazione porta a una perpetua connessione e dà per fortuna la possibilità di far arrivare in un attimo le proprie foto dall’altra parte del mondo, cosa che una volta era impensabile. Quanto progresso c’è stato nel frattempo… Da quando per esempio Robert Capa sviluppò i rullini dello sbarco in Normandia, scelse le poche foto che si salvarono, le spedì per la pubblicazione. C’era insomma tutta una ritualità che nel tempo si è persa. Oggi dopo aver scattato la foto in mezz’ora ci si lavora e la si invia con un computer al giornale. La fruibilità del mezzo è inevitabilmente cambiata. Tornando al lato chiaro/oscuro dei social è stato sorprendente come pur abitando in un posto piccolo come Bolzano le mie fotografie di Venezia siano arrivate addirittura negli Stati uniti. Sono state pubblicate sull’Huffington Post e il direttore dell’istituto di cultura di San Francisco le ha viste e mi ha contattato chiedendomi di esporle nella sua struttura. La fotografia, e questo è un suo grande pregio, è un filo che unisce luoghi molto distanti e differenti fra loro.

Quello del fotografo è un lavoro sostanzialmente solitario, come ti muovi in questa dimensione?

Mi piace, anche perché sono molto introversa, ma ho bisogno anche del confronto con gli altri e mi aiuta molto fare didattica con i bambini o gli adulti, lavoro come formatrice in un’associazione che si occupa di disturbi dell’apprendimento. Quello della fotografia è un ambiente artistico particolare, sospeso, quasi fuori dal mondo, i ragazzi invece mi riportano con i piedi per terra, sono diretti ed è quello il bello. Ma non è tutto facile. Tramite il Fotoforum collaboro con Weigh Station e qualche giorno fa abbiamo parlato proprio di questa forma di imbarazzo di chi lavora nel mondo dell’arte, il trovarsi a dire, ad esempio, “faccio il fotografo ma anche altro per guadagnarmi da vivere e pagarmi le bollette”.

Mai subito il fascino del cinema? Potrebbe essere una sovrapposizione al lavoro di fotografa? 

In verità sì, per un periodo ho anche pensato di fare la Scuola di documentario della Zelig, il fatto è che ho tante idee ma poco tempo. 

Questa fedeltà e dedizione all’arte come si alimenta?

Continuando ad avere “fame”. Ultimamente mi sto discostando dal paesaggio per lavorare più su un altro tipo di paesaggio, quello interiore. Mi sono avvicinata molto alla fotografia d’archivio. Ho già presentato in vari concorsi un progetto sulla famiglia che è molto diverso da tutto quello che ho fatto finora. Lavoro tanto sul collage di immagini, con foto della mia famiglia, di mia madre, mia zia, ma anche di membri famigliari dalla parte di mio padre, foto di quando erano più giovani o bambini, e poi con altro materiale d’archivio trovato in un mercatino delle pulci ma anche attraverso un gruppo Facebook. Ho messo insieme fotografie attuali che avevo già scattato di paesaggi naturali accostandole a queste immagini del passato, cercando di farle dialogare. Si tratta di un’evoluzione dal punto di vista professionale probabilmente, ma si tratta sempre di un lavoro legato a un elemento biografico e al sentimento che suscita un determinato paesaggio. Mi piace poi questa funzione sociale delle foto. Ci sono i topoi narrativi, le storie da raccontare, i compleanni, la cresime, le comunioni, quasi a comporre un album dei ricordi, una cosa che mi affascinava molto.

Cosa ti ha ispirato?

Ho amato molto il lavoro di Moira Ricci, un’artista toscana che dopo la morte della madre ha messo insieme tutte le foto di lei da giovane, e tramite un foto-ritocco si è inserita all’interno di queste foto in modo che guardasse sempre la madre, come a simboleggiare una forma di protezione e l’inevitabilità di quanto sarebbe accaduto. È stato un modo per elaborare il lutto e ne è venuto fuori un progetto bellissimo. 

La “crisi del foglio bianco” però arriva per tutti.

Eccome [ride]. Il fatidico momento del “E ora che faccio?”. Una volta mi hanno detto: “Ricordati che nella fotografia le cose importanti sono: la riconoscibilità, l’autorialità di chi scatta, e che l’immagine abbia qualcosa da dire, che lo faccia in modo unico. Con in mente, costantemente, questi obiettivi la “maledizione” del foglio bianco è sempre dietro l’angolo… La voglia di conoscere, cercare, fare, che ritorna sempre come un’esigenza impossibile da ignorare mi ha sempre dato una grande spinta e molta motivazione, anche perché a Bolzano 10-15 anni fa di fotografia, a certi livelli, non si occupava praticamente nessuno. 

Prima di iscriversi all’università quante occasioni ci sono nella scuola per i due gruppi linguistici di stare insieme, studiare insieme, crescere insieme? È possibile che ancora adesso parliamo di scuole divise? Sono discorsi che faceva Langer vent’anni fa e da allora continuiamo a girare intorno al discorso senza muoverci di molto

Nel 2002 per il progetto collettivo Voices from Italy hai scelto anche il bassorilievo di Piffrader in piazza Tribunale, che è stato recentemente uno dei soggetti per il reportage di Repubblica sull’Alto Adige, “La provincia sospesa”, di cui hai curato le immagini. In mezzo un’opera di storicizzazione. 

Mi hanno contattata da Repubblica per questo lavoro ed è curioso perché in effetti mi sono ritrovata a fotografare, dopo anni, quella parte di città che poi è cambiata nel tempo. Ho inseguito i punti nevralgici della città legati all’identità, e dunque piazza Tribunale, il Monumento alla vittoria, la statua di re Laurino. Bolzano è una città complessa che lavora su due identità, un tema che fra l’altro vorrei affrontare ma so anhe che sarebbe un lavoro monumentale da completare. Contestualizzare e ripensare certe opere, trasformare quello che è stato in qualcosa di altro, con un nuovo respiro, credo sia un esercizio giusto da fare. Sia a livello politico che culturale. 

A proposito di cultura e divisioni sorvegliata speciale in Alto Adige è, giocoforza, la scuola.

A Bolzano abbiamo un’università trilingue, un’ottima cosa anche se è un peccato che, considerando il luogo, manchino facoltà come Antropologia o Lingue. Ma prima di iscriversi all’università quante occasioni ci sono nella scuola per i due gruppi linguistici di stare insieme, studiare insieme, crescere insieme? È possibile che ancora adesso parliamo di scuole divise? Rispetto ai discorsi che faceva Langer più di vent’anni fa non ci siamo mossi di molto in avanti, continuiamo a girare intorno alle stesse cose. Io sono cresciuta a Oltrisarco, quartiere tipicamente “italiano”, e la prima volta che ho avuto occasione di confrontarmi con persone di madrelingua tedesca è stato nell’ambito di Fotoforum 5 o 6 anni fa. Viviamo ancora troppo secondo la logica dei compartimenti stagni. C’è ancora tanto lavoro da fare.

Su cos’altro, per esempio?

La dimensione “paesana” che caratterizza l’Alto Adige è bella, comoda, soprattutto per chi come me è abituato a muoversi in bici. Soffro tuttavia il fatto che Bolzano sia periferica rispetto ad altre città. Che non abbia un aeroporto funzionante che mi permetta di raggiungere un posto piuttosto che un altro rapidamente. Andare a prendere un aereo a Milano o a Venezia vuol dire dilatare i tempi e anche perdere occasioni. Diverse volte ho dovuto rinunciare alle offerte di alcuni magazine che mi chiedevano di andare a fare un servizio in Spagna, ad esempio, perché incastrare tutto risultava impossibile. Devo anche dire che la montagna dopo un po’ mi dà una certa ansia, per via di questo blocco visivo, che è protettivo, certo, ma anche inibitorio in un certo senso. Devo imparare a guardarla con più distacco.

Si può?

È un equilibrio che bisogna trovare. A me, per dire, piace molto il mare, e anche ragionare, come paradigma filosofico, sul mare, peraltro oggetto della mia tesi della magistrale. Ho in mente un progetto sul Mediterraneo, vorrei indagarlo come luogo, come sentimento, scoprire cosa racconta, la sua geografia, le persone, le differenze fra la parte Nord e Sud. L’idea, insomma, è quella di avere un punto fermo a Bolzano ma anche di uscirvi. E questo non è solo un desiderio legato alla fotografia, ma nasce da un movimento interno personale. Dall’altra parte in Alto Adige ci sono tante possibilità, inutile negarlo. Ricordo che per la prima mostra fotografica ricevetti un finanziamento pari all’80%, in quali altre realtà territoriali si investe tanto su una persona?  

La fotografia è un luogo dove ci si può perdere, non riconoscersi più o ritrovarsi, come davanti a un libro che una volta ci piaceva e oggi non più

Un luogo che ti piacerebbe immortalare?

L’Africa mi affascina molto e in generale i luoghi aperti e ampi.  

Oliviero Toscani ha detto: “Vediamo tutti la stessa identica immagine e abbiamo tutti un’opinione diversa, non è incredibile?”.

Mi vengono in mente le immagini di Francesca Woodman, fotografa americana morta suicida nel 1981. Sono foto di una potenza incredibile scattate in bianco e nero in questi ambienti spogli. Le ho mostrate ai miei ragazzi e ognuno di loro ha dato un’interpretazione diversa. Così come davanti alle foto di Gregory Crewdson, un altro artista il cui mezzo espressivo è molto peculiare. La fotografia è un luogo dove ci si può perdere, non riconoscersi più o ritrovarsi, come davanti a un libro che una volta ci piaceva e oggi non più. C’è la scoperta di una percezione nuova perché anche noi, nel frattempo, siamo cambiati.