Cultura | SALTO WEEKEND

La lingua del silenzio

Presentata a Bolzano l'ultima raccolta poetica di Roberta Dapunt: “Sincope”. Un libro corporale, estremo, vero, in cui la scrittrice si mette completamente a nudo.
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Foto: Foto: Salto.bz

Per trattare della nuova raccolta di poesie di Roberta Dapunt (“Sincope”, Einaudi 2018) vorrei fare un passo indietro, e – forse – anche uno di lato. Il 27 agosto 2009, durante una commemorazione del poeta brissinese Norbert C. Kaser svoltasi a Fortezza, la poetessa ladina lesse un testo, solo recentemente pubblicato sulla rivista online Nazione Indiana, che si chiudeva con queste parole: “E tu caro norbert, parlavi di letteratura che nessuno sa, non in questo luogo bizzarro. Porgimi l’orecchio, ho da dirti che Prima Letteratura è la mia quotidianità, baraonda di pensieri da depositare lentamente negli scaffali delle lingue”. Il dialogo è istruttivo perché incide una distanza scavata nel cuore della prossimità tra due figli (anzi un figlio e una figlia) di una terra che non è più la stessa. E pour cause. L'umile terra impastata del fango privo di colori conosciuta da Kaser non è certo quella cantata dalla Dapunt, che dalla quotidianità del suo soggiorno periferico, al contrario, ha trovato una Heimat da non disprezzare. Si tratta però di una distanza che nel tempo ha mutato segno, senza per questo ridursi. Capire in cosa consista questo mutamento di segno potrebbe fornire una chiave importante per aprire lo scrigno di significati di “Sincope”, ed è quanto mi propongo di fare con questa mia brevissima nota.

L'esperienza del corpo come crisi del "luogo"

Torniamo dunque all'immagine iniziale, alla “baraonda di pensieri” depositati “negli scaffali delle lingue”. Qui l'apparente condizione di pacificazione multiculturale (impensabile nel Sudtirolo solcato dalle tensioni che conobbe Kaser) è solo un punto di partenza privo di protezione. Localissima fino a coincidere con il perimetro del suo maso di Ciaminades, non c'è niente di più universale dell'ispirazione delle poesie della Dapunt. Se le tensioni possono dunque rinascere, lo faranno non al livello della società (la “società”, per la Dapunt è sempre stretta, limitata agli affetti più prossimi) ma sul piano che si agita sottopelle, nelle crepe dell'individualità, com'è confermato proprio da un verso della nuova raccolta: “Troppa vegetazione sul terreno delle molte lingue (…) mi succede in bocca la confusione mentale” (“della lingua I, oppure dei versi troppo lunghi”). Le abitudini subiscono una ferita, o per meglio dire non riescono a parare i colpi che generano possibili ferite, sconnettendo l'Io dal circuito del suo orizzonte più noto: “Ciò che conosciamo da sempre, ora ci succede di riconoscere soltanto” (“del vivere consueto”). È la crisi, l'esperienza di una frattura che ci sbalza via dal “luogo” in cui pensavano di “stare” (ma forse sarebbe meglio dire il luogo che pensavamo di essere, visto che non occorre “lasciarlo”, quel luogo, per percepire adesso la sua sconcertante estraneità). Questo luogo così intimo e remoto, al contempo proprio ed estraneo, è il corpo esposto ai rischi di una emorragia e di una inversione onnicomprensiva dei suoi connotati: “Sono il luogo. Sono, io sono il tuo luogo”.

Mi è sempre stato amico il silenzio

Prima di leggere alcune poesie di “Sincope” – lunedì 19 marzo, il giorno in cui il libro è stato presentato a Bolzano –, Roberta Dapunt ha fornito il contesto della sua ispirazione: “Mi sono sentita attratta dai corpi, dalla storia dei corpi che in questa nostra società così orientata dal concetto di prestazione e riuscita invece falliscono, i corpi che non ce la fanno; ma anche i luoghi possono fallire, sono i luoghi che non tengono il passo coi tempi, per esempio i luoghi disabitati o distrutti da una guerra; ancora, ho pensato ai morti, a coloro i quali muoiono in uno stato di estremo abbandono, magari nella stanza accanto alla nostra e senza che noi ce ne accorgiamo, morti che neppure hanno la consolazione di avere un nome. Queste sono dimensioni che mi rappresentano”. La dimensione dell'assenza, riportata al dettato poetico, è quella del silenzio, la sua trafittura amichevole (“Mi è sempre stato amico il silenzio...”, si legge nella “lettera di componimento alla morte”) che precede e segue la rottura dell'argine tra il non essere e l'essere (e non siamo forse noi stessi questo argine, questo trattenere il non essere nell'essere e l'essere nel non essere, questo nostro da-sein?).

Avevo provato a richiamare questi pensieri parlando a Roberta della domanda fatta da Martin Heidegger al termine del testo “Die Sprache” (Unterwegs zur Sprache): “Woran bricht sich das Geläut der Stille?”, contro che cosa si infrange il suono della quiete? Ogni filosofia suona però subito eccessiva, fin troppo magniloquente (“Troppa vegetazione...”) per avvicinare l'agnizione che pervade i testi di “Sincope”, il cedimento della coscienza che, pure, serve ad attingere una consapevolezza sentita nel “ventre”. È bene perciò che il dialogo tra filosofia e poesia torni muto, e resti solo la voce, vero argine tra spirito e corpo, “a sillabare la volontà di non esserci e così di finire, come tante volte ho ideato e mai sono riuscita veramente a fare”.

Mettere a nudo il corpo del verso

Non so se una registrazione servirebbe a catturare la voce di Roberta Dapunt mentre legge le sue poesie, se riuscirebbe cioè a catturarne la “nuda essenza”. L'evento che ogni volta si produce è una misteriosa recitazione scevra di enfasi, un mettere a nudo il corpo del verso senza per questo spogliarne del tutto il senso. Consapevole e concentrata, Dapunt riesce così a smussare gli spigoli che la lettura compiuta nel foro interiore non può scalfire (e ce ne sono molti, di spigoli, dentro “Sincope”). Ogni parola diventa più tonda, più armonica, anche quando ci si muove sul terreno friabile e spudorato di una confessione: “Ma ora sì che avrei da dirvi, raccontarvi, urlarvi addosso la condizione di un isolato io” (“epitaffio III, oppure del rammarico”).

Io sono la zolla staccata dai campi coltivati

Ancora un ultimo rimando alla poesia, già citata, in memoria di Kaser: “Io che sono ladina, che non sono italiana, che sono figlia illegittima di quest’Italia, che ne violento ogni giorno la lingua e compro il pane in tedesco. Falso desinare il mio. Ipocrita, ogni giorno a pasturare con indifferente lingua. Eppure i versi, a loro non importa l’inchiostro versato, importa a loro invece la terra impropria che pesto, poiché non so a chi appartengo, eppure erede di un popolo fermo, mentalità sedentaria, che abbiamo fissato i chiodi per vendere ladina persino la cena e sul tavolo ormai abbiamo lasciato un limitato spazio alla modestia, all’umiltà”. Di modestia o di umiltà, in “Sincope” sarebbe vano cercare le tracce, perché la ricerca della più cruda verità ha ormai oltrepassato il confine della benemerenza morale (vero, buono e bello qui non si sforzano neppure vagamente di coincidere: “...io sono la zolla staccata dei campi coltivati”). La poesia che sgorga dal silenzio torna solo al silenzio (silenzio che è “lingua di tutte le lingue”) senza fare proclami. È qui, è così, e non può essere altrimenti. Ognuno crei dentro di sé e intorno a sé lo spazio necessario a farla risuonare e dissolvere, come lei chiede.