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Quo vadis, cooperativa sociale?

Se l’Apostolo Pietro, in fuga dalle persecuzioni romane, riformulasse oggi la sua domanda, quale sarebbe la risposta?
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Legacoopbund

Parafrasando la frase “Eo Romam, iterum crucifigi” (vado a Roma a farmi crocifiggere di nuovo), la cooperativa sociale intervistata potrebbe rispondere “Vado a farmi rinnovare di nuovo …”, non importa se a Roma o Bolzano.

Infatti, il modello delle cooperative sociali, salutato a suo tempo come una vera e propria innovazione imprenditoriale e sociale, ultimamente sta perdendo il suo slancio e, a dir il vero, un po’ di meritato aggiornamento non guasterebbe, dopo quasi trent’anni di attività.

Negli anni ottanta del secolo scorso le cooperative “di solidarietà sociale”, come si chiamavano a quei tempi, si erano attivate, molto prima che il legislatore si decidesse a emanare la famosa legge 381/1991. Mentre in Parlamento si svolgeva uno sterile dibattito ideologico durato più di dieci anni, i cooperatori della prima ora si erano mossi, di propria iniziativa, per rispondere concretamente a nuovi bisogni sociali, senza attendere disposizioni di legge o contributi pubblici.

C’erano da realizzare innanzitutto l’inserimento lavorativo e l’integrazione sociale di persone “con handicaps fisici, psichici o difficoltà comportamentali”, per usare un termine poi andato fuorimoda, primi fra tutti i malati psichiatrici.

Ed ecco che nel 1973 sorge la prima cooperativa sociale proprio fra medici, operatori e degenti (a suo tempo si sarebbero potuti definire internati) dell’O.P.P., l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, dove stava maturando la riforma Basaglia. E, infatti, dopo alcuni anni, la “Cooperativa lavoratori uniti” ha assunto la denominazione di “C.L.U. Franco Basaglia”, in onore del suo promotore e fondatore, nel frattempo defunto.

Inoltre c’era da predisporre anche l’assistenza ai tossicodipendenti, per la quale il servizio sanitario nazionale, ai suoi primi passi, non aveva né strutture né esperienza, e c’erano, in generale, mille servizi da inventarsi, per soddisfare gli interessi della comunità, contribuendo cosi alla creazione dello Stato sociale italiano.

Dappertutto, in quegli anni, si trovavano in prima linea le cooperative sociali, con varie matrici ideologiche o religiose, ma animate da un unico spirito solidaristico e accomunate da un concreto impegno a favore della collettività. Mossi da spirito di servizio, i primi cooperatori sociali hanno messo in second’ordine gli interessi economici e professionali dei soci, per privilegiare i bisogni dei più indigenti e il soddisfacimento di interessi generali della comunità. Così hanno dimostrato in modo tangibile quale possa essere il “ruolo sociale” della cooperazione, sancito dalla Costituzione, e negli anni sono diventati protagonisti irrinunciabili nell’inserimento lavorativo e nei servizi socioassistenziali.

Saltando trent’anni di meritato servizio, arrivati alle soglie del terzo millennio, sembra quindi lecito chiedere: “Quo vadis cooperazione sociale?”

Intendi rimanere attiva nei settori ormai storici, in cui vanti esperienza, professionalità e una lunga serie di vittorie, con qualche pareggio e rare sconfitte? Oppure ti accorgi che i bisogni sociali stanno cambiando, che la demografia è avviata in modo irreversibile verso l’invecchiamento e che anche gli svantaggiati non sono più quelli di una volta?

Non sono domande inopportune, perché questa volta il Parlamento ha giocato d’anticipo, aggiornando qualche norma vigente, emanando disposizioni nuove, e, dove non è arrivato a farlo, si è mosso il nostro legislatore autonomo, regionale o provinciale che sia. E le cooperative sociali, che alla loro origine anticiparono il legislatore di dieci anni, questa volta pare che siano state prese alla sprovvista da un quadro normativo, messosi improvvisamente in movimento.

Infatti, oggi si sente parlare di “Legge sul dopo di noi”, di riforma del terzo settore, di interventi dell’INAIL per il reinserimento di persone con disabilità da lavoro, ma anche di agricoltura sociale e perfino dell’abolizione della distinzione, scellerata da sempre, fra cooperative sociali di tipo A e B. Da non dimenticare la mossa a sorpresa, con la quale, dopo un quarto di secolo, il legislatore è entrato a gamba tesa nello storico articolo uno della legge 381/1991, allargando notevolmente i servizi socio-sanitari ed educativi, riservati alle cooperative sociali di tipo A.

Quindi, se non bastassero i cambiamenti sociali e demografici in atto a spingere la cooperazione sociale verso un opportuno rilancio, ci si è messo il legislatore che ha aperto scenari nuovi, e regolato, questa volta ex ante, settori d’intervento vicini al “core business” della cooperazione, ma che saranno fonti di sfide e di improvvisa concorrenza, richiedendo un rinnovato impegno, con tutto quello che ne potrà derivare in termini strategici, economici e organizzativi.

A queste nuove opportunità di diversificazione la cooperativa di ricerca sull’innovazione sociale SOPHIA ha dedicato un recente studio, in cui approfondisce la portata delle nuove norme, evidenziando quali prospettive si possano aprire per le “cooperative sociali 2.0”, cioè quelle che raccoglieranno la sfida dell’innovazione e che si metteranno al passo con i tempi, fermamente intenzionate a confermare il loro ruolo primario nel settore sociale.

Oscar Kiesswetter

La ricerca della cooperativa sociale Sophia, commissionata da Legacoopbund verrà presentata in occasione di un evento pubblico, il 4 aprile 2018 alle ore 17.30 presso la Camera di Commercio di Bolzano.