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Bolzano e i monaci del kung fu

“Faith”, il documentario di Valentina Pedicini sui Guerrieri della luce, maestri di arti marziali che vivono in un monastero marchigiano. Tutto ebbe inizio in Alto Adige.
Monaci
Foto: Faith

“Un viaggio umano potentissimo”, così Valentina Pedicini, regista brindisina, classe 1978, talentuosa ex allieva della Zelig International School of documentary film di Bolzano, definisce la sua “incursione” nella comunità dei Guerrieri della luce attraverso il suo ultimo lavoro, Faith. 22 ex campioni di kung fu hanno lasciato il capoluogo altoatesino, dove nel 1998 è nato il nucleo fondativo del gruppo, per andare a vivere, nel 2009, in un casolare nella campagna marchigiana, a Montelupone (Macerata), in modo completamente autosufficiente, coltivando l’orto e allevando animali da fattoria, pregando e allenandosi. Scordandosi di cellulari e tv. Monaci guerrieri, che vestono solo di bianco a simboleggiare la purezza di cui si fanno portatori e consacrano corpo e anima a un “bene superiore”. Abituata a perlustrare i luoghi della marginalità, per quattro mesi la regista di Dal Profondo e Dove Cadono Le Ombre ha vissuto con gli esperti di arti marziali, guidati dal Maestro Corrado e dalla sua compagna Cristina, giorno e notte, raccontando la loro cadenzata routine. E l’ambizione è pari ai risultati. Il documentario si sta facendo notare in alcuni dei più importanti festival europei, dall’International Documentary Film Festival Amsterdam (IDFA) alla Berlinale. 

La storia inizia a Bolzano, quando 11 anni fa Valentina, allora cadetta della Zelig, conosce Laura Perrone, ex campionessa mondiale di kung fu.

 

salto.bz: Pedicini, cominciamo da quell’incontro, che diventerà in qualche modo il segnalibro della sua carriera.

Valentina Pedicini: Sono felice di avere l’occasione di poter parlare dell’“esperienza Faith”, al di là della pellicola in sé perché i film, una volta finiti, non sono più miei, ma di tutti. La vita all’interno della comunità con il Maestro e i ragazzi sono stati gli elementi più forti di questo viaggio umano potentissimo. Tutto è partito proprio da Bolzano, 11 anni fa, quando per puro caso mi sono imbattuta in una una manifestazione di kung fu. Da regista sul piano estetico mi colpì questa ragazza, Laura, che oggi vive nel monastero. Aveva qualcosa di “magico”, di molto particolare nello sguardo e la sua esibizione in una strada qualunque di Bolzano mi sembrò una specie di stranissima apparizione. Ho voluto poi incontrarla nella palestra in cui allora si allenava e ho scoperto un mondo molto più grande e ricco di quello che mi ero immaginata, una realtà che andava oltre la semplice dimensione sportiva. Si trattava di una vera e propria famiglia allargata all’interno della quale Laura viveva e praticava il kung fu. Decisi quindi di girare un corto Pater noster. Era il mio primo anno alla Zelig e quello fu il mio primo lavoro, avendo a disposizione tempi ristretti mi concentrai solo sulla relazione sportiva fra Laura e il Maestro. 

Sono sempre stata affascinata dal coraggio delle persone che scelgono di stare da quella parte del mondo che apparentemente può sembrare incomprensibile, perfino sbagliata

Perché tornare ad esplorare questo mondo 11 anni dopo?

In questi anni ho fatto altri film e quando si è trattato di ricominciare a pensare a un nuovo progetto sono tornata con il cuore e con la testa a quel corto che per me aveva significato molto. Ho capito di essere finalmente pronta ad avvicinarmi, con più consapevolezza, a questa storia. Sapevo che Faith mi avrebbe cambiato la vita, anche professionalmente. Questo film è la summa dei miei temi cinematografici. 

Ovvero?

Sono sempre stata affascinata dal coraggio delle persone che scelgono di stare da quella parte del mondo che apparentemente può sembrare incomprensibile, perfino sbagliata. Con Dal Profondo sono stata insieme ai minatori, li ho seguiti durante l’occupazione, chiedendomi come fosse possibile voler tenere aperta la miniera, un luogo che è spesso causa di fatica, sofferenza, morte, ma stando sul posto ho capito le loro motivazioni. Nel film di finzione, Dove Cadono Le Ombre, ho raccontato un genocidio sconosciuto contro un’etnia rom. Faith è nato da una grande domanda: quanto coraggio ci vuole per abbandonare il mondo e cercare di crearne uno nuovo? È stata in questo caso la scelta radicale di vita che il Maestro e i suoi ragazzi avevano compiuto ad avermi rapita.

Ha vissuto a stretto contatto con i monaci guerrieri per quattro mesi conquistandone la fiducia. Che tipo di esperienza è stata?

Quando il Maestro ha accettato la nostra presenza (anche la troupe si è vestita di bianco durante tutto il tempo delle riprese, ndr) mi ha detto: “È un atto di fiducia e di coraggio. Ti metto in mano la mia vita e quella dei miei fratelli, esponendoli al giudizio del mondo. Troppe volte ho dovuto difendere la nostra scelta da etichette e stereotipi. Ti mostrerò la nostra quotidianità, la nostra intimità di famiglia allargata. Quando Faith sarà finito ciascuno potrà conoscere la nostra scelta di vita alternativa e guardarla, conoscerla senza pregiudizi, ma giudicando ognuno con i propri occhi. Siamo pronti”. Il Maestro non sapeva nulla di come avrei girato, eppure ha mantenuto la coraggiosa promessa iniziale, continuando a vivere la quotidianità, come se la telecamera fosse diventata improvvisamente trasparente. Fiducia, giudizio, intimità, sguardo, coraggio, verità. Faith tocca così i temi più profondi delle relazioni umane e del cinema documentario. Volevo che lo spettatore, così come è stato con Dal Profondo, venisse immediatamente catapultato dalla poltrona comoda e rassicurante del cinema dentro un mondo quasi completamente ignoto. Accedervi è stato un grande privilegio per me. 

 

Come descriverebbe la vita quotidiana nella comunità?

È molto complessa, ma anche straordinaria. Credo che il percorso di Faith possa essere descritto con delle parole chiave, oltre a “fiducia”, quella del Maestro nei miei confronti e la mia verso la potenza del cinema, anche “equilibrio”. Quello che abbiamo dovuto sempre mantenere prendendo parte a quel mondo e restando nel contempo un passo indietro per raccontare la verità senza mai giudicare. Passavamo con i monaci una media di 10-15 ore al giorno per ottenere anche solo un’ora di girato, alla ricerca dell’autenticità più che della verità che si è mostrata da sé, progressivamente davanti ai nostri occhi. Non dormivamo nel monastero, avevamo bisogno di uno spazio per continuare a lavorare al film, ma abbiamo passato con i ragazzi molte notti per filmare la loro quotidianità. Faith è un documentario compromettente nel senso più bello del termine, per fare un film così intenso e intimo bisogna creare un rapporto con le persone, perché non sono degli attori. Mettono a disposizione la loro esistenza. 

I film si fanno quando le persone credono in te e nei tuoi progetti e Bolzano ci ha creduto

Perché ha scelto di girare il film in bianco e nero?

Non è stata una scelta estetica ma etica. Il bianco che il Maestro e i monaci indossano è un simbolo molto forte per loro, volevo che anche il film mostrasse questa” scelta monocromatica dell’esistenza” e inoltre l’obiettivo era superare la dimensione del tempo e dello spazio, perché questa è una storia piccola ma universale. Il bianco e nero mi ha aiutato a spostare tutto su un livello astratto e a non dare connotazioni didascaliche. Insieme al direttore della fotografia, Bastian Esser, ci siamo resi conto che i colori avrebbero potuto rappresentare una distrazione, mentre il bianco e nero portava lo spettatore a concentrarsi di più sui visi, i corpi e l’emotività delle persone. 

Esser è un suo ex compagno della scuola Zelig, Bolzano resta un fil rouge nella sua vita?

È la grande forza della Zelig quella di creare rapporti lavorativi importanti. Io e Bastian avevamo realizzato il corto 11 anni fa. Abbiamo deciso di tornare insieme a chiudere quel capitolo. Al progetto hanno lavorato tutti ex studenti della Zelig, tranne il montatore, Luca Mandrile, che ha montato tutti i miei film. La scuola mi ha cambiato la vita, è durante quegli anni che ho capito quale sarebbe stato il mio destino. Sono debitrice a Bolzano e anche Faith lo è. Non solo perché lì è nata la storia che ho voluto raccontare ma anche perché ho ricevuto dalla Provincia parte del finanziamento per il mio film, come fu per Dal Profondo. I film, del resto, si fanno quando le persone credono in te e nei tuoi progetti e Bolzano ci ha creduto. 

 

 Ci hanno creduto anche all’estero, a quanto pare. 

Faith è stato recepito bene, pur essendo un film complesso, e ne sono molto felice. È appagante che un progetto che è stato uno spartiacque nella mia vita lavorativa, ma anche sul lato emotivo, venga apprezzato dalla critica. Abbiamo presentato il film in anteprima all’IDFA, un festival specializzato che i documentaristi definiscono la “Cannes del documentario”, siamo stati a Göteborg in Svezia, a Berlino, e parteciperemo in concorso a un’altra quindicina di festival internazionali che ci hanno selezionato. Per quel che riguarda la distribuzione all’estero esiste già, mentre l’uscita italiana non è ancora prevista. Speriamo che da aprile in poi si possa vederlo nelle sale. La strada, per i documentari, è sempre in salita anche se ormai lo è anche per i film di finzione. Il pubblico però è cambiato, è più aperto e desideroso di scoprire storie prese dalla realtà. È il sistema che deve cambiare.

 Non è una questione di premi ma di riconoscimento che ancora oggi noi donne facciamo fatica ad ottenere

Da regista donna sente ancora di dover sconfiggere scetticismo e pregiudizi?​

Personalmente mi ritengo fortunata e affermando ciò dico qualcosa di molto grave dal punto di vista politico. Perché è intollerabile che nel 2020, in Italia o all’estero, avere la possibilità di accedere a dei finanziamenti, portare a compimento un proprio film, sia una questione di fortuna. E invece è così che mi sento, fortunata. Intendiamoci, ho lottato molto e fatto sacrifici per questo lavoro riuscendo a realizzare sempre i progetti a cui mi appassionavo, ma non posso far finta che l’ambiente non sia ancora ad appannaggio maschile. Per me fu sconvolgente ad esempio il fatto che Alice Rohrwacher, che a mio avviso con Lazzaro felice ha realizzato uno dei film più belli del nostro cinema, abbia vinto due volte a Cannes e non sia rientrata nella cinquina ai David di Donatello. Sempre a proposito di David quest’anno non ci sono donne nella categoria miglior regia o migliore opera prima. Non è una questione di premi ma di riconoscimento che ancora oggi noi donne facciamo fatica ad ottenere.