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Il paese dello star male

Daniela Dal Pai, attraverso l’esperienza di suo marito, racconta cosa significa una diagnosi di malattia genetica rara, toccando il tema della sofferenza e del reagire.
Daniela dal pai
Foto: salto books

Susan Sontag in “Malattia come metafora” scrive: “Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Cittadino della malattia lo è stato Andrea quando nel 2016 inizia a manifestare i primi sintomi della linfoistiocitosi emofagocitica, una patologia genetica rara del sistema immunitario che di solito si presenta durante l’infanzia ma che può manifestarsi anche in età adulta. Per arrivare alla diagnosi Andrea deve aspettare il 2019: dal 2016 al 2019 entra ed esce dagli ospedali, prova terapie, tocca con mano la speranza, conosce da vicino la fatica e la noia dello star male, vede la sua quotidianità assumere una forma a cui non era abituato e a cui non si abituerà mai.

Insieme ad Andrea, l’esperienza della malattia e, nel 2020, della morte la vive anche sua moglie Daniela che si trova catapultata in una realtà che non le permette di mostrare debolezze: come infermiera assiste Andrea, come compagna sostiene Andrea, come madre protegge le due figlie. Daniela tenta di coprire tutti questi ruoli senza concedere spazio alla stanchezza, alla paura e alla tristezza; si trova ad accompagnare una persona cara all’interno del paese della sofferenza senza poter concedersi il lusso dello scoraggiamento. Come una bolla che non può scoppiare, Daniela gestisce gli impegni e tiene a bada le emozioni, un sistema di controllo questo che resiste grazie a un’unica valvola di sfogo: la scrittura. Durante la malattia del marito, Daniela Dal Pai inizia a raccontare in forma scritta le sue giornate: racconta lo sviluppo della patologia, la scoperta della diagnosi, le ospedalizzazioni, la morte e il lutto dando forma a una sorta di diario che nel 2022 prende il titolo di “Sopra il limite” diventando un libro a tutti gli effetti.

salto.bz: Cosa significa percorrere l’iter di una diagnosi di malattia rara?

Daniela Dal Pai: Significa vivere nell’incertezza. Avere una diagnosi con nome e cognome significa avere una terapia e avere qualcosa di certo contro cui combattere. Nel nostro caso, invece, è stata per lungo tempo una lotta contro un fantasma.

Da infermiera avrai avuto modo di conoscere bene la malattia. Qual è la differenza tra assistere una persona sconosciuta e assistere un familiare?

Mi faceva molta rabbia il fatto di non riuscire a capire l’evoluzione della malattia di Andrea, cosa che invece ero in grado di fare con i miei pazienti. Certo, il caso di Andrea era molto particolare! Mi ricordo che nel reparto di Medicina anche una dottoressa mi aveva detto che la malattia di mio marito sembrava evolvere sempre al contrario di quello che si sarebbe aspettata. A sentire queste parole mi misi a ridere: non ero io che ero emotivamente troppo coinvolta da poter capire il decorso di Andrea.

Nel mio caso è stato difficile anche perché, essendo un’infermiera e avendo lavorato in ospedale, i colleghi non mi vedevano come familiare ma come collega e quindi capitava che mi delegassero delle cose che in quel momento non avrei mai dovuto fare perché non era il mio compito. A un certo punto Andrea non era più mio marito, era il paziente; questo cambio di ruoli è stato molto pesante anche se in parte è stato una forma di difesa.

 

Nel libro più volte racconti la malattia di tuo marito attraverso lo sguardo di una moglie. La malattia spesso mette in crisi la coppia perché fa cambiare in modo brusco i ruoli. Nel tuo caso, come è stato?

Nel seguire la malattia ci si ricopre di tantissimi ruoli: non sei più solo la compagna, diventi infermiera, badante, donna delle pulizie, segretaria… Ci si carica di molte parti, ma nessuna realmente ti appartiene. Nel mio caso, la parte di moglie è andata a cadere perché sono stata sobbarcata da tutti gli altri compiti che non ho potuto delegare.

È stato più faticoso non “essere più” una moglie oppure non “avere più” un marito?

In realtà, la difficoltà maggiore è stata rendermi conto di essere uscita anche dal ruolo di madre, nel senso che, dovendo seguire Andrea in ogni aspetto e continuando ad avere gli impegni della quotidianità, non riuscivo più a dedicare del tempo alle mie figlie. C’è ancora questo tipo di difficoltà: adesso che le decisioni le devo prendere senza mio marito, mi accorgo di cercare un confronto con loro che per forza di cose – oggi le bambine hanno nove e undici anni – è limitato.

In che modo la malattia trasforma le persone?

A un certo punto accade che sono stufe. Mi ricordo che Andrea mi diceva sempre “Tu lo sai che io non sono così, io ero diverso”. Lo ribadiva perché l’alto dosaggio di cortisone lo rendeva molto nervoso. Per me la difficoltà era però il fatto che la “vecchia” versione di Andrea non la conoscevo più. Per questo motivo con le bambine ho intrapreso un percorso che permettesse loro di avere il ricordo del papà prima della malattia.

Si pensa spesso che la malattia sia il momento peggiore dimenticando la fase del lutto, resa ancora più complessa da una società che rifiuta l’idea della morte. All’inevitabile domanda “perché è successo a me” hai mai cercato una risposta?

Mi sono fatta spesso questa domanda e anche Andrea se la faceva durante la malattia. Quando, dopo la morte di mio marito, le chiamate e i messaggi sono diminuiti, con maggiore forza ho cercato di capire il perché di quello che era successo e fu così che chiamai un prete di Merano. La mia domanda era: perché adesso? In quattro anni Andrea ha rischiato di morire così tante volte, che mi sono domandata perché non fosse morto prima. Questa questione è stata una sorta di tormento finché non ho conosciuto, o meglio ritrovato dato che eravamo stati compagni di scuola, Mattia il cui figlio si chiama Andrea. A parte l’insolito gioco dei nomi invertiti (Mattia si chiama con il nome che ho dato a mio marito nel libro e ha un figlio con il nome vero di mio marito), mi è servito sapere che, come la mia vita, anche la vita di Mattia aveva subito degli importanti cambiamenti durante il 2020: ho cominciato a pensare che se le cose avvengono in un determinato momento c’è un perché.

L’aver sentito l’esigenza di metterti in contatto con un prete è stata dettata dal bisogno di cercare una spiegazione religiosa?

Da un certo punto di vista sì, anche se ovviamente non c’è stata alcuna risposta di carattere religioso, perché nemmeno il prete poteva dirmi perché mio marito era morto proprio in quel momento. Questo prete è stato però l’unico che solo attraverso delle telefonate è riuscito a darmi molto conforto e speranza. Sentirmi dire che il mio contratto di matrimonio era sciolto, che avrei dovuto aspettare due anni prima di prendere decisioni importanti mi ha lasciata da un lato perplessa, dall’altro lato mi ha aiutata.

C’è qualcosa che rimpiangi di come è andata l’esperienza della malattia di Andrea?

Sì. Se i medici fossero stati più chiari e avessero detto che non c’erano più speranze, lo avrei riportato a casa anche per permettere alle bambine di avere un ultimo contatto con Andrea. Questo passaggio invece è proprio mancato. È stato però bello il fatto che in Rianimazione ci abbiano consentito di andare tutti quanti a salutarlo un’ultima volta.

Succede spesso che i medici trattino i pazienti come portatori di una malattia e non come persone e ciò si traduce in distacco eccessivo, comunicazione basata su termini tecnici talvolta incomprensibili, poca attenzione nel dare al paziente gli strumenti necessari per fare una scelta autonoma sulla propria salute. Cosa e come si potrebbe migliorare l’ambiente ospedaliero e il rapporto tra paziente e personale sanitario?

Al di là dell’esperienza, devo entrare nel mio ruolo di infermiera. Negli ultimi anni la medicina è cambiata tantissimo. Oggi, a confronto col passato, il medico è più vincolato rispetto al comunicare informazioni precise e dettagliate, ma c’è la tendenza a dare fino all’ultimo delle speranze. Mi ricordo che un mese prima della morte di Andrea avevo avuto un colloquio telefonico con i medici in cui avevo chiesto com’era esattamente la situazione e la loro risposta era stata confortante, anche se nella realtà l’effetto della terapia era già iniziato a mancare.

Ci dovrebbe essere una sensibilizzazione da parte dei medici che dovrebbero dare quell’informazione in più al paziente da permettergli di scegliere cosa fare. Rimanere all’ospedale? Andare a casa? Andare alle cure palliative? Dovrebbe essere restituita maggiore libertà di scelta ai pazienti. La visione del medico non si deve confondere con quella della persona in cura che ha la propria vita e i propri desideri. Verso il fine vita può capitare di avere l’esigenza di mettere un punto a determinate cose e, se non viene data la possibilità, rimane qualcosa che ci lega con la vita terrena. Bisogna sempre avere la possibilità di chiudere un capitolo, rivedere una determinata persona, fare quel viaggio che si ha sempre desiderato ma che non si è mai potuto intraprendere, tutte cose che non si possono fare se si passa l’ultima parte della vita in un letto d’ospedale. Posso capire la paura dei medici che rischiano la denuncia perché non hanno fatto tutto il possibile, penso però che se ci fosse una giusta cultura il bravo medico saprebbe fare quel passo indietro per far scegliere ai familiari o alla persona stessa quale via prendere. Sarebbe bello se ci fosse più onestà e meno orgoglio.

Perché parli di orgoglio?

Perché davanti a una malattia che non si arresta, il medico ha perso. Che poi non si tratta di perdere, semplicemente si tratta del decorso che sta facendo la malattia. Secondo me c’è sempre quella punta di orgoglio che spinge a voler risolvere un caso clinico a prescindere dalla situazione.

Con attenzione hai raccontato la morte non solo come avvenimento drammatico ma anche come momento di liberazione. Davanti a una sofferenza che non dà tregua, qual è la tua posizione circa l’eutanasia?

Sono favorevolissima. Il testamento biologico che c’è adesso ha fatto qualche passo in avanti, ma non ancora nel concreto. Bisogna avere riguardo di quello che pensa il paziente: se per il paziente la sua non è vita, è importante rispettarlo. Certo, è necessario avere una buona conoscenza di sé stessi, perché per arrivare a decidere quando mettere un limite bisogna sapere quali sono per sé le cose importanti della vita.

Avevi mai affrontato questo argomento con Andrea?

Un giorno in una fase di forte crisi Andrea aveva esplicitamente detto che la sua non era più vita. Di certo trascorrere tutte le giornate in ospedale non restituisce alcuna qualità di vita. Soprattutto verso la fine, Andrea aveva perso le speranze; me ne ero accorta perché aveva voluto che vendessi le tute per andare in moto – sua grande passione –, aveva preparato un file Excel con tutte le password di accesso, mi aveva detto i lavori che c’erano da fare a casa, tutti suggerimenti che poi ho messo in pratica.

E tu le speranze le avevi perse?

No, io ci credevo veramente tanto. Avevo già iniziato a organizzarmi in previsione del trapianto di midollo che avrebbe dovuto a Brescia. Pensavo al futuro tutti insieme. Era difficile perdere le speranze, perché Andrea ha rischiato così spesso di morire che quando è stato intubato per l’ultima volta gli ho detto di non preoccuparsi perché lui era come la fenice, risorgeva sempre.