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Gesellschaft | Maltrattamenti

La fine dell'empatia

Perché riusciamo sempre meno a metterci nei panni degli altri, fino a disconoscere una comune umanità e persino a diventare disumani?

Tutti più o meno conoscono il significato del termine “empatia”. Prima di scrivere questo articolo, ho fatto una breve ricerca e ho scoperto che la parola fu “coniata” dal filosofo Robert Vischer per descrivere un fenomeno di tipo estetico. Era qualcosa che aveva a che fare con la capacità dell'artista di immergersi nella natura, ricavandone un valore simbolico. Grazie ad aggiustamenti successivi, quel significato originario (e tecnico) si è modificato e ora intendiamo qualcosa di mediamente diverso. L'empatia è infatti la facoltà di mettersi nei panni degli altri, di provare quello che loro sentono, di capire insomma come stanno, perché magari si è vissuto qualcosa di simile o di comparabile. Alla luce di tale acquisizione, mi pare, è allora possibile dire che per gli empatici il clima è diventato pessimo. Empatia ricorda troppo il disprezzato “buonismo”, e con ciò si può intuire come la pensano (e cosa sentono, o per meglio dire: non sentono) le persone che hanno in odio i “buonisti”: loro, infatti, di quello che provano gli altri, se ne fregano alla grande, non possono stare lì a perderci tempo, e se magari questi sentimenti altrui sono causati dalla paura, dall'estrema difficoltà, e persino da condizioni di gravissimo pericolo, ecco che fanno spallucce, diventano persino aggressivi, e rivendicano il diritto di non occuparsene. È una cosa che non li tocca minimamente. Forse tutta questa isteria sulle frontiere da difendere e sui porti da chiudere corrisponde ad un terrore del contatto intimo, come se l'esser toccati dal destino altrui distruggesse il proprio fragilissimo equilibrio, ancorché edificato su solidissimi luoghi comuni. È a questo punto che però accade la catastrofe che osserviamo tutti i giorni. Continuamente a contatto con gente che mostra di non provare alcuna Einfühlung, anche chi possiede un briciolo di empatia – perché magari di solito riesce a mettersi nei panni degli altri – perde per reazione o contagio la capacità di comprendere quel che (non) sentono coloro i quali sono privi di empatia. Nessun dialogo tra empatici e non empatici, dunque, con la certezza che la possibilità di condividere una minima porzione di umanità (alla quale, non scordiamolo, avremmo il diritto di appartenere tutti...) evapori totalmente o arretri in una giungla di contrapposizioni assolute. Abbastanza per concludere con un pensiero amarissimo di Ludwig Wittgenstein, con il quale questa piccola rubrica di resistenza si congeda dai suoi lettori/ascoltatori per alcune settimane: “Wenn wir einen Chinesen hören, so sind wir geneigt, sein Sprechen für ein unartikuliertes Gurgeln zu halten. Einer, der chinesisch versteht, wird darin die Sprache erkennen. So kann ich oft nicht den Menschen im Menschen erkennen”.

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Robert Tam... Mo., 09.07.2018 - 21:31

Fa sorridere un Di Luca che da un lato insulta pesantemente chi la pensa diversamente da lui (stronzi, rimbambiti, idioti, ecc.) e poi ti scrive un articoletto che parla di empatia...

Mo., 09.07.2018 - 21:31 Permalink
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Gabriele Di Luca Di., 24.07.2018 - 00:17

Antwort auf von Robert Tam...

A me fa sorridere questo commento. Ci si dimostra empatici comprendendo i sentimenti altrui, specialmente quando si tratta di sentimenti che esprimono un disagio, una sofferenza. Davanti ad osservazioni cretine l'empatia non è necessaria. Basta dire che sono osservazioni cretine.

Di., 24.07.2018 - 00:17 Permalink