Gesellschaft | Gastbeitrag

Un Patto da allargare

Oltre le apparenze, il Patto per l'integrazione approvato dalla giunta provinciale di Bolzano mostre alcune criticità che non è possibile ignorare.
hofer1.jpg
Foto: Georg Hofer

Di recente la Giunta provinciale, dopo un lungo periodo di gestazione, ha approvato il Patto per l’integrazione („Wir vereinbaren Integration“, nella versione tedesca), destinato, nelle parole dell’assessore Achammer, a fornire „la cornice politica necessaria a raggiungere un’integrazione intesa come convivenza pacifica“. Che cos’è il Patto per l’integrazione e a chi si rivolge? Diciamo subito che non si tratta di una nuova legge, e neppure (come il nome potrebbe invece far pensare) di un documento da far sottoscrivere agli stranieri immigrati per l'ottenimento di alcuni benefici, come ad esempio è il caso della Integrationsvereinbarung austriaca o dell’Accordo di integrazione esistente a livello nazionale italiano dal 2012. Entrambi questi testi infatti, sottopongono il soggiorno degli immigrati stranieri non comunitari ad una ben precisa condizionalità fra l’apprendimento della lingua e il soggiorno, cosa impossibile per la Provincia autonoma, che non ha competenze sulle condizioni del soggiorno sul territorio. In questo senso, quindi, il Patto per l’integrazione ricorda piuttosto la „Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione“ promossa nel 2007 dall’allora Ministro dell’Interno Amato, e nella quale vengono tratteggiati tutti quei principi fondamentali che regolano (o meglio, dovrebbero regolare) la convivenza civile in Italia, e ai quali gli stranieri che vogliono integrarsi nel paese devono uniformarsi. A livello nazionale italiano, si tratta probabilmente della prima volta che una Regione o Provincia autonoma si cimenta in un tentativo di sistematizzare i diritti e i doveri degli stranieri, se si eccettua un documento (il „Patto d’accoglienza e d’integrazione degli immigrati“) in qualche modo analogo emanato dalla Regione Veneto alcuni anni fa, il quale però, a differenza del Patto per l’integrazione della provincia di Bolzano, prevedeva una firma congiunta da parte della Regione Veneto e dell’immigrato, rispetto ad una serie di impegni reciproci. Al di là della rilevanza giuridica, ad ogni modo, anche il Patto per l’integrazione propone una visione in qualche modo „condizionata“ dell’integrazione, secondo quel principio del fordern und fördern (promuovere ed esigere) che vede nell’integrazione qualcosa che l’immigrato deve guadagnarsi o meritarsi attraverso precisi comportamenti.

Il Patto per l’integrazione è comunque un documento da leggere molto attentamente, perché, mentre ad uno sguardo superficiale appare molto ragionevole e dettato dal buon senso, ed in parte certamente lo è, ad una lettura più attenta mostra alcune criticità che non è possibile ignorare. Il Patto per l’integrazione è diviso in tre parti: mentre nella prima e nella seconda, di carattere introduttivo, si espone il concetto di integrazione, nella terza si enumerano i diversi settori in cui essa deve declinarsi, stabilendo per ciascuno di essi gli obiettivi da raggiungere. In generale, l’integrazione è vista come un processo di dare e avere, governato da regole chiare, in base alle quali il territorio che „accoglie“ mette a disposizione „offerte atte a favorire una partecipazione paritaria alla vita della comunità e richiede al contempo una partecipazione attiva all’integrazione“. Sul piatto della bilancia dell’integrazione, in particolare, vengono messi quelli che in realtà sono diritti riconosciuti a tutti gli stranieri residenti, e non sottoposti a quella „progressiva parità di accesso“ di cui parla il Patto, che sembra in tal modo prefigurare una sorta di „integrazione a tutele crescenti“. A questo proposito, giova ricordare che la Corte costituzionale, con due diverse sentenze, ha dichiarato illegittimi gli articoli della legge provinciale sull’integrazione che condizionano l’erogazione di determinate prestazioni alla durata della residenza. A livello di notazione linguistica, va anche notato che il testo tedesco („Die neuen Bürgerinnen und Bürger erhalten den gleichberechtigten Zugang...“) appare leggermente differente da quello italiano (richiamato sopra), dando adito ad un dubbio interpretativo. Sarebbe comunque opportuno, a questo proposito, che il testo si esprimesse con più chiarezza, evitando  di caratterizzare i diritti come una sorta di ricompensa per un Integrationswille la cui valutazione rischia inevitabilmente di scadere nell’arbitrarietà.

Un altro aspetto critico, stavolta di carattere più generale, è rappresentato dal fatto che, mentre il documento enuncia principi che devono indiscutibilmente valere per tutti, sembra in un certo senso parlare soltanto agli immigrati, dando in un certo qual modo per scontato che siano loro e loro soltanto, ad esempio, a dover conoscere e rispettare „i valori fondamentali, le tradizioni culturali e le regole della convivenza in Alto Adige“. Invano si cercherebbe nel documento un riferimento chiaro al concetto di Akzeptanz, a quel riconoscimento della propria specificità cui ogni essere umano ha diritto, anche (o soprattutto) se si trova al di fuori dal luogo in cui è nato e cresciuto. Più che porre condizioni, sarebbe forse necessario riconoscere e rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’integrazione, che soltanto così può diventare consapevole, accettata e paritaria, e dunque reale e duratura.

La questione dell’apprendimento delle lingue ufficiali della provincia rappresenta indubbiamente una delle maggiori preoccupazioni del documento, e non a torto, in quanto diversi studi, a livello internazionale, nazionale e locale hanno ampiamente dimostrato che la padronanza della lingua locale è una condizione imprescindibile (ancorché non sufficiente) per l’integrazione in una determinata società. E’ altrettanto evidente che la popolazione migrante deve essere messa in condizioni di apprendere le lingue attraverso un’offerta capillare, multilivello e in grado di venire incontro agli impegni lavorativi e familiari. Bene fa il documento a riconoscere esplicitamente l’importanza della lingua d’origine, che ovviamente non va sottovalutata, se non si vuole trasformare l’integrazione in assimilazione: in proposito si afferma infatti che „la competenza linguistica delle nuove cittadine e dei nuovi cittadini è promossa sia nella rispettiva lingua d’origine, sia in ulteriori lingue“ (pensiamo, in questo caso, soprattutto all’inglese).

La lingua (che notoriamente rappresenta ancora un problema anche a livello di popolazione „autoctona“) è comunque soltanto uno degli aspetti tematizzati dal documento che, lungi dal riguardare unicamente gli stranieri, dovrebbero essere rivolti indistintamente a tutti gli abitanti della provincia. E allora sorge spontanea la domanda: perché un immigrato, per essere accettato, deve dimostrare di essere in qualche modo „migliore“ degli altri?


Dall’integrazione alla convivenza: un futuro possibile per il „Patto per l’integrazione“

Al di là di questa breve e incompleta analisi del Patto, la domanda principale che il documento suscita è quella relativa alla sua natura e, di conseguenza, alla sua portata. E’ ovvio, come già accennato sopra, che non si tratta di un testo giuridico, quanto piuttosto di un documento politico-programmatico, che cerca di porre alcune premesse, e in questo senso appare come un preludio ad un qualcosa che deve ancora venire, e che avrà probabilmente le sembianze di un impegno reciproco, da parte del territorio e da parte del migrante.  

In questo senso ci piacerebbe suggerire un approccio più ampio alla questione, che tenga conto sia delle reali condizioni di vita dei migranti che delle specificità del Sudtirolo. Per quanto riguarda le prime, le difficoltà oggettive del processo di integrazione sono tali e tante che certo non si avverte il bisogno di ulteriori condizionalità istituzionali. Tutti gli studi effettuati negli ultimi anni convergono nel sostenere che i cittadini stranieri (quasi un abitante su dieci in provincia di Bolzano) rappresentano indubbiamente la nuova classe svantaggiata (nell’accesso al mercato del lavoro, al mercato immobiliare, alle opportunità formative - che a loro volta generano lavoro e reddito, per non parlare dei diritti politici negati, come il voto amministrativo). Da ultimo, un recentissimo e approfondito studio sulle differenze etniche e le stratificazioni sociali nell’Alto Adige di oggi (curato dalla Michael Gaismair Gesellschaft e dall’Istituto di ricerca Apollis) conferma che, mentre da una parte le componenti “storiche” della società locale tendono sempre più all’omogeneità, dall’altra si assiste all’emergere di un nuovo “quarto stato” strutturalmente penalizzato per una serie di motivi che in questa sede non è possibile approfondire.

E’ molto probabile che la scarsa identificazione degli immigrati con il territorio di inserimento (che spesso si lamenta a livello politico-istituzionale) derivi da un senso di estraneità, che a sua volta scaturisce dal fatto di non essere sufficientemente riconosciuti e accettati in quanto esseri umani portatori di una propria lingua e cultura. E’ paradossale che proprio in un territorio come l’Alto Adige, dove l’identità linguistico-culturale ha ricevuto così tanta (forse troppa...) attenzione, ai nuovi cittadini si chieda sic et simpliciter di rispettare „i valori fondamentali, le tradizioni culturali e le regole della convivenza in Alto Adige“. Insistere nella logica del „siamo qui da più tempo di voi“, che tanti risentimenti continua ancora a produrre, può solo contribuire alla costituzione di quelle famose „società parallele“ che hanno già dato ampia prova di sé in altri contesti territoriali, allontanando l’obiettivo comune della coesione sociale. Quella sudtirolese è ormai una società stabilmente plurale e sempre più è destinata a diventarlo. Sarebbe quindi forse ora di ampliare il discorso, cogliendo l’opportunità che ci è data dalla storia, ed allargare il Patto di integrazione ad una Carta per di diritti e la convivenza di tutte le componenti del territorio.