Books | Il caso

Il male senza sostanza

Attesissimo, descritto come l’evento letterario dell’anno, il thriller altoatesino di Luca D’Andrea non risulta convincente oltre lo stretto stereotipo del suo genere.
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Foto: Salto.bz

La sostanza del male (Einaudi, 2016) è un romanzo del quale si è parlato molto prima che il volume venisse impilato nelle librerie. Se ne è parlato perché la notizia, per certi versi sensazionale, era questa: i diritti dell’opera sono già stati venduti in circa trenta paesi, tra cui – come si legge nel risvolto di copertina – Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti. A Bolzano il nome dell’autore è stato poi più volte citato in quanto si tratta di un figlio di questa terra. Dunque al clamore per il successo editoriale si mescola il legittimo orgoglio per cotanto locale prodigio. 

Ho comprato il libro il giorno della sua uscita (il 24 giugno) e mi sono messo subito a leggerlo cercando di non far agire due pregiudizi speculari: se è stato così già tanto apprezzato, pensavo, si tratterà sicuramente di un capolavoro (il consenso universale lo testimonia), oppure, pensavo anche, di una porcheria (il consenso universale tradisce spesso un apprezzamento per qualità superficiali). Ho insomma provato a leggerlo calandomi semplicemente nella storia e aspettandomi in primo luogo quello che ci si aspetterebbe da un esemplare del “genere” al quale appartiene: “Luca D’Andrea – stavolta è la retrocopertina a parlare – ci mostra come un thriller può mettere a nudo il cuore di un uomo travolto dalla propria ossessione”.

Ora, trattandosi di un thriller posso qui limitarmi solo a pochi cenni sul contenuto. Il protagonista è un autore televisivo americano, ha sposato una donna sudtirolese, e i due si trasferiscono con la figlia di cinque anni nel paesino di Siebenhoch (dove lei è cresciuta), situato nei pressi di quello che passa come il più profondo canyon altoatesino: il Bletterbach, altrimenti detto in italiano Rio di Ora (copyright Ettore Tolomei) o Rio delle Foglie. Nel cuore di questo paradiso geologico (che D’Andrea trasforma riga dopo riga in un sinistro “inferno” di memorie dissepolte) si nasconde una tenebra impastata con i seguenti ingredienti: soccorritori in elicottero disposti a tutto pur di strappare gli escursionisti alla morte (cioè disposti a morire, se necessario), un delitto efferato e dai misteriosissimi contorni, altre morti e suicidi e incidenti disseminati qua e là, risse di taverna, l’ombra di creature preistoriche non del tutto estinte e gorgoglianti sul fondo di insondabili grotte sommerse, una piccola comunità locale incapace di superare o confessare le proprie ossessioni. Mi immagino che sia stata la lettura del ricco menu a far venire l’appetito a così tanti editori, eppure, come detto, io ho cercato di cibarmi del testo senza pensare al suo imponente battage pubblicitario.

Se dovessi quindi rispondere alla domanda principale (“come l’hai trovato il libro?”) direi che la lettura procede spedita, il tessuto narrativo è fatto prevalentemente di dialoghi, l’architettura della storia tutto sommato tiene, eppure ciò che è stato così pomposamente promesso (in primo luogo una credibile suspance, materia prima del genere) stenta parecchio ad essere mantenuto. In definitiva la “sostanza del male” non riesce quasi mai ad essere “sostanziale”, perdendosi al contrario in una cascatella di trovate o colpi di scena posizionati negli snodi principali della trama, secondo lo studiato copione, in modo da non far decollare pienamente l’attenzione del lettore (per non parlare dei suoi brividi, francamente assenti). Neppure il risvolto psicologico dominante, l’ansia di conoscere il volto più torbido dei destini umani – incluso il proprio – incarnata dal protagonista, risulta completamente a fuoco, e comunque non soddisfa il palato di chi magari vorrebbe apprezzare sfumature non prevedibili o scarti dissonanti rispetto all’orizzonte d’attesa generato da un “classico” thriller (leggendo mi sono tuttavia chiesto se anche gli amanti dei “classici” thriller amino sempre e solo qualcosa che sia solo un “thriller”).

Prima che La sostanza del male uscisse, era addirittura spuntato qualcuno che, pur non avendone letto una pagina, proponeva di conferire a D’Andrea una particolare onorificenza cittadina “al merito tanto atteso”. Persino l’espressione del Walther è apparsa più meditabonda del solito, come se premonisse, quasi paventasse un cambio della guardia sul suo antico piedistallo. Il libro, intanto, si sta vendendo discretamente (una settantina di esemplari in due settimane alla Ubik di Bolzano, una ventina a Trento) ma se ne parla meno di quanto si sia fatto quando era ancora imballato nei cartoni della casa editrice e sui social sfrecciavano le indiscrezioni. Meglio fosse accaduto il contrario, no?

Quando comparirà l’edizione tedesca non è improbabile che i gestori del parco geologico del Bletterbach colgano l’occasione per ammantare il proprio sito dei cupi fulgori (ancorché plastificati) de La sostanza del male, tra sensazioni che rimandano ad uno Stephen King fatto in casa, alla diapositiva sfocata del mostro di Loch Ness e una spruzzatina di Picnic at Hanging Rock. Sarebbe una perfetta chiusura commerciale per l’intera operazione.