Chronik | La scienza del dimagrimento

LA SCIENZA DEL DIMAGRIMENTO

Imprigionato in ogni grasso c’è un magro che fa segni disperati di voler uscire. Cyril Connolly
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L’obesità e il sovrappeso sono ormai divenute tra le questioni predominanti delle società occidentali e occidentalizzate, alla stre­gua delle tradizionali questioni filosofiche: “che cos’è il mondo?”; “che cos’è l’uomo?”; “che cos’è la verità?”.                                                                                                                                                  Allo stesso modo: “che cosa sono il sovrappeso e l’obesità?”; “come possiamo trattarli?”. Per approfondire questi argomenti – e coglierne le diverse sfu­mature – si necessita analizzare le prospettive delle cause che li originano: fattori cognitivi, emotivi, esperienziali, comportamen­tali, sociali, economici, ambientali, relazionali, familiari, ma anche biologici e genetici. Questo manuale si rivolge innanzitutto ai professionisti del settore del dimagrimento (dietologi, nutrizionisti, dietisti, psico­logici, psicoterapeuti, educatori alimentari, personal trainer) ma anche a chi vuole confrontarsi con l’origine e la natura del sovrap­peso e dell’obesità.

INTRODUZIONE ALLA LOGICA DEL LIBRO

C'è un'altra via d'uscita dall'apparente limite delle coscienze individuali e dell'unicità del modo di vedere le cose: la visione molteplice di ogni cosa.

Claudio Lombardo

Quando si parla di obesità o di sovrappeso la prima azione che si compie è quella di individuare in modo manicheo cibi buoni e cibi cattivi e adottare rigorosi piani dimagranti al fine di evitare la dura condanna del “tribunale metabolico”.                                                                                                                                       Sembrerà incoerente che un manuale dedicato alla dieta non li riservi, ma prima di trattare questo problema bisogna analizzare il fenomeno generale nelle molteplici sfaccettature. Nonostante le enigmatiche contese delle svariate ricerche rispetto alla relazione tra corpo-natura, corpo-cultura , cibo-farmaco, cibo-veleno, incorporazione e astinenza, ciò che mangiamo sta diventando sempre più vettore di intossicazione.                                                                                                                        La veicolazione del recente sistema di plasmazione verticalizzante del corpo, proveniente dal binomio cibo lecito/non lecito, molto calorico/poco calorico, concepisce il culto agnostico del corpo. Il concetto di corpo come vetrina – indifferente a qualsiasi altro tipo di esigenze umane – per quanto si possa criticare, è estensione dell’ideologia comune. La pregnante immediatezza delle immagini fisiche – ricche di senso plastico e di notevole armonia delle forme – rimanda a discriminanti fisionomie morfologiche che ci associano per livellarci e ci livellano per associarci. In questo impermeabile scenario contemporaneo impossibile la penetrazione di utili domande:

“ Su quale piano troverò la mia identità?”

Il politico Alcibiade (450 a.C. – Frigia, 404 a.C.) tenta di dare importanza al sé tramite la cura dell’anima; afferma: quando ci si prende cura del corpo non ci si prende cura del sé. Il sé non è né l’abito, né gli oggetti, né i beni.                                                                                                                                                          Odiernamente il corpo obbedisce a specifiche categorie (obeso, muscoloso, magro, ecc.) e ne segue l’imperioso impulso a variare. Fisiologica conseguenza il paradossale modus operandi di una società che oscilla tra il rifiuto sistematico per il cibo e la sua ricerca ossessiva secondo vari gradi di privazioni e di soddisfazioni. Da un versante, dunque, la continua ricerca dei segni esteriori di questa condizione sociale tende verso la nebbia delle identificazioni: l’esperienza del corpo si trasforma in pensiero, in idea fissa, in essenza di rappresentazione ed essenza che rappresenta, in materia intrappolata dentro schemi di perfezione: separando sempre più l’auto-immagine dal proprio corpo, essenzialmente, lo si lega. Dall’altro i meccanismi di inganno dei prodotti alimentari ci investono sempre più con il loro “design comunicativo”: il fascino ipnotico di un involucro in cui condensa “un’immagine avvincente che riempie e ossessiona la mente” nel suo carattere parassitario modifica la tonalità comportamentale. Inconsciamente sedotti da questi effetti d’eco le nostre scelte alimentari sfuggono in gran parte alla progettazione consapevole. Così, nella nostra cultura, si affermano pratiche alimentari lontane dalle origini del senso evoluzionistico: la pretesa ignorante di separare gli uomini dalle loro tradizioni biologiche e psico-comportamentali, dalla loro natura, fino ad invadere i limiti geografici dei propri equilibri. Pratiche alimentari che, con i loro effetti di devianza ed involuzione, rappresentano una forma di violenza - forse più subdola ma non meno feroce di altre - che bisogna comprendere.

Negli affascinanti edifici delle décadence del nostro tempo si creano tante scelte, ma anche tanta confusione. Si parla di “consumo responsabile di alcol”o di “dieta varia”. Si consiglia di bere bibite light per dimagrire. Nell’ overflow informativo si traghettano nel nostro inconscio “smagliature” d’assurdità: informazioni di possibile ritenzione e attuazione ma d’impossibile utilità e rimedio. In questo quadro contemporaneo vengono rifiutate le icones symbolicae ingombranti, pertanto, qualsiasi impedimento visivo viene “epidermicamente” sentito. L’attuale modello “fisico” - inciso nel tessuto della nostra società - schiaccia l’uomo vivente, e lo stigma stereotipico dipinge l’obeso al cospetto di una rappresentazione quasi selvaggia: una persona che mostra grandi denti dietro due labbroni sgraziati nel godimento alimentare assoluto e incestuoso consumato nel proprio spazio di pigrizia immobile.

Questa prospettiva non fa comprendere come la dimensione dell’obeso sia una dimensione “contraddittoria”: l’immediata eccitazione del cibo (aspetto edonistico) rimanda a successiva sofferenza (senso di colpa). Così, caricato di disprezzo si crede che, vigliaccamente, egli si pieghi alla volontà del cibo e all’eccesso pulsionale che lo abita. Debolezza, stupidità, sporcizia, inferiorità e mancanza di auto-controllo sono tutti tratti psicologici con cui viene etichettato. Da una parte, quindi, l’obesità emerge anche come “malattia della cultura”; dall’altra, la nostra società fabbrica sempre più obesi, ma li tollera male (De Cristofaro, 2002).

MA QUALE DOMANDA ALL’ORIGINE DELL’OBESITÀ?                                                                                                                                                    Arriva un giorno, all’improvviso, di colpo, come far scattare un interruttore della luce, come aprire un rubinetto; oppure si insinua piano piano, subdolamente, contaminando l’intera struttura (fisica e mentale) dell’individuo? L’intervento solo a fronte dei suoi esiti più viscerali. Con il guadagno della durata avvolge l’individuo edificando un argine difensivo: tesse una sorta di ragnatela con caratteristici vuoti che “alimenta” la sua costruzione. Il soggetto s’impegna nella sua missione, dilata la maglia della propria struttura, così come il ragno torna sempre al nucleo della sua tessitura per tirare un nuovo filo: gli spazi vuoti aumentano. L’obesità, di conseguenza, nella propria impalcatura simbolica, viene intesa come meccanismo di sbarramento che mette al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di un eccesso di stimoli dolorosi, ma che di fatto diventa dolore successivo: una vita zavorrata dal sovrappeso per riempire gli spazi vuoti. L’immagine del ragno diventa più minacciosa: sottomettendo a preda l’individuo non gli permette di RESPIRARE. SOFFOCATO dalla pesante realtà del grasso falsifica la propria identità (mi accetto così come sono) o aliena l’imponente involucro (non mi sento bene dentro questo corpo). La persona che va incontro al sovrappeso – e poi all’obesità – spesso si avverte socialmente “vuota” manifestando arresti significativi nella propria esistenza.

Anni di lavoro in osmosi con persone che manifestavano disagi per la propria condizione fisica mi hanno insegnato come, molto spesso, l'eccesso di peso è tampone stabilizzante di un adattamento complessivamente precario: una toppa sulla veste lacera del tessuto biologico, sociale e – più di frequente – su quello psicologico.                                                                                                                                                                                                   Considerata l'adeguarsi attraverso un enorme sforzo distruttivo di una soluzione auto-terapeutica atta ad arginare l’angoscia, la paura, il “vuoto”. Di un vuoto desideroso di riempire compulsivamente sé stesso.                                                                                                                                                       Così, il sintomo (l’eccesso ponderale) diventa una maschera identitaria, cemento per rafforzare una interiorità vacillante. Il cibo, in questa prospettiva, con “mordente” (e)motivo può arrivare a deformare il corpo fino a farlo percepire indegno di essere vissuto.                                                                                                          Tuttavia avvisare con piglio autoritario i soggetti obesi che attentano alla propria conservazione, non modifica affatto il loro comportamento perché il possibile aumento del volume corporeo si traduce in godimento stesso con evidente vantaggio secondario (come continuità della coerenza del proprio vissuto corporeo).

Questo decentramento può depositarsi ed estendersi anche su singoli aspetti della propria quotidianità svuotandoli di senso, essendo il cibo unico aspetto dotato di senso.                                                                                                                                                                                                                             La vita cambia in un breve periodo: il giorno si fa notte, la vergogna una compagna fissa, il quotidiano evitamento di un corpo strutturalmente “caricato”. L'atmosfera acquisisce un puro prodotto di soggettività dimenticata, “ingabbiata” nella proiezione inconscia della sovralimentazione.   Il cibo viene usato in maniera strumentale, in modo compensatorio e consolatorio, come “rifornimento emotivo”, in risposta al caos dell’ansia, dello stress, della depressione, della noia e via dicendo.                                                                                                                                                                     In questa raffigurazione moderna la dieta si presenta come deposito di diversificate interpretazioni che prendono vita dallo scambio vicendevole di spezzoni della propria e altrui esperienza.

La dieta, comportandosi come “custode” dei limiti biologici e psicologici, diventa usurpatore dell’equilibrio interno, come male necessario che porta luce - spesso sotto forma di illusioni - ad un corpo ospedalizzato nella buia realtà del grasso.                                                                                     Appare come appetizione alla magrezza (Margesucht), come mezzo di trattamento della psicosi alimentare da parte del soggetto, come difesa dall’incontro sgradevole con il proprio corpo e con la società, come tana necessaria rispetto al nulla, al “vacuum”; un nido di protezione dalle persecuzione del “fuori” e dalle sollecitazioni degli accadimenti ma anche, paradossalmente, come conseguenza di desideri castrati dalla deprimente avventura di severi tonemi inibitivi e divieti castigatori.                                                                                                                                              Tra slancio e volo nei vuoti personali, tra evasione e prigionia della limitazione calorica, il soggetto, diventando sempre più ingombrante è punto dalle stesse spine del nido.

Acquisita come regolarità, come prassi, gli si obbedisce senza capirne il senso, cosicché in breve tempo diventa idea di privazione, punizione, repressione: orrore il solo pronunciarla, anticamera del circolo vizioso dell’autopunizione che porta ad una sequenza carica di pessimo significato, e ancor più di un pessimo finale (dieta - trasgressione - senso di colpa - crollo dell’autostima - ulteriore sovrappeso).                            In quest’ottica le “evidence-based medicine” più che essere utilizzate come prima (ed unica) soluzione nella terapia dimagrante vengono impiegate come supporto ad una impalcatura che regge variabili di natura psico-sociale.                                                                                                                          La weltanschauung odierna sembra ancora concepire l’organismo in termini di misurazioni e aggiustamenti: il groppo annodato del programma dietologico di calcoli calorici immersi nella durezza di numeri semplici e squadrati, sbozza una rozza e ingessata soluzione al problema. La “misura”, la fissità di questo atteggiamento, ha radice da un funzionamento iterativo degradante: nella "torre di avorio" della ricerca scientifica, nello scambio osmotico tra teoria e applicazione, si incontra uno studio dicotomico di parti che compongono il sistema-persona: l'uomo fisico, l’uomo psicologico, l’uomo sociologico.

Fortunatamente, sembra si stia intorpidendo quel meccanismo che vede contrapposti, parafrasando Kubie, “organicisti psicofobi” e “psicologi organofobi”, i quali parlano e agiscono come se non potessero coesistere nello stesso individuo problemi di entrambi i campi, misconoscendo la prospettiva multidimensionale “psico-socio-biologica” che nel suo atteggiamento eterodosso manipola efficacemente la concezione dietologica (che indaga l'identità della patologia rispondendo alla domanda “cos’è l’obesità?") e quella psicologica (la quale esplora l'identità dell'individuo portatore della patologia domandandosi "chi sia il soggetto obeso?") nonché quella sociologica (che pone la domanda: “in che modo l’ambiente o il gruppo influenza le scelte del soggetto?”).                                                                                                                                                                                        Ogni riduzionismo di questa macro dimensione - cioè ogni tentativo di ridurre la faccenda del sovrappeso a semplici processi biologici - ne amputerebbe la comprensione e impedirebbe quindi una lotta efficace.                                                                                                                                    Purtroppo è ancora presente in modo prepotente lo spettro della tradizionale impostazione “disease centred”, caratterizzata da una diagnosi e da una prescrizione terapeutica che, a volte, non lascia spazio a quella “patient centred” in cui, recuperata la capacità di ascolto, l’elemento innovativo è costituito dall’indagine e confronto sul vissuto emotivo del paziente. Alla questione obesità e sovrappeso partecipano intriganti sistemi di autoregolazione, diversi e distinti nello spazio e nel tempo, che si sviluppano dal periodo fetale all’età adulta. La panoramica psico-pedagogica e bio-chimica mette in evidenza in che modo l’alone di dettagli comportamentali – che si sporge nel passato e nel futuro dell’individuo – è di origine primitiva: nell’utero materno il feto tocca l’ambiente acqueo per mezzo dell’involucro cutaneo, e con la piega cutanea buccale impara il sapore che, crescendo, si muterà nel gusto del cibo e nel piacere del bacio; formando poi l’organo olfattivo, avverte l’afrore dei succhi primordiali, sangue, linfe, secreti ghiandolari (Gentile, 1981). L’esperienza con gli alimenti comincia proprio durante i primi mesi e anni della propria esistenza: i fattori ambientali rappresentando una sorta di “andirivieni” tra contesto e individuo lo forgiano in tutta la sua architettura vivente.                           Il sovrappeso può presentarsi anche come incosciente incrocio di vecchie abitudini provenienti dall’infanzia, ad esempio quando coincide con le manifestazioni di disagio del bambino (non necessariamente dovute alla fame) dove la madre risponde con una offerta indifferenziata di cibo (Bruch, 1993). In questa fase subentrano molteplici variabili: dallo stile di attaccamento genitoriale ai fattori socio-economici che non si limitano a marcare la differenza sociale in una pregiudizievole questione di naso, ma incidono attivamente sul proprio stile di vita, limitando alcune scelte e possibilità o enfatizzandone altre.                                                                                                                                                                                            Catapultato in un mondo ricco di clonazioni culturali l’individuo si trova sempre più paralizzato dalla tecnologia e patologizzato da una società che tratta cibi dannosi come legali, e quindi innocui – in una misura valutativa della normalità (concetto che sta attraversando una crisi molto severa) che viene contaminata dalla “normalizzazione dell’innaturale” (come potremmo arrischiarci a definirla): millenario inganno collettivo, lievita sul cammino di una trasgressiva manipolazione dei cibi naturali mirando alla loro innaturale artefazione. Essi vengono promossi, diffusi, commercializzati ed infine considerati come alimenti normali, e quindi naturali. In preda all’assolutizzazione del polo opposto si parla di “diete delle caverne” come ricovero nella dimensione della naturalità dell’uomo; si tenta di aderire alla loro contestualità genetica ignorando la parte culturale (un passaggio logico che, anche in questo caso, la dice lunga sulla persistente incertezza circa la misura valutativa della normalità).       Ma questo effetto non viene circoscritto al solo settore alimentare ma si estende anche a livello comportamentale.

Oggigiorno non è raro che un’accentuata attività motoria infantile venga gabellata come fatto “clinico” (certamente appannaggio di specialisti “selvaggi”) sebbene naturale condizione dell’infante contenuto fisicamente dalle eccessive regole di una comunità che ne denuncia la sua spontanea locomozione.

A queste costanti si vanno aggiungendo, vagone a vagone, le “interferenze tecnologiche” (cellulari, Tv, pc, ecc.) che incidono intensamente sulla percezione e le modalità del consumo alimentare: l’utilizzo di apparecchi telematici s’intreccia con l’apparecchiare da tavola e in un’integrazione ibridante e reciproca diventano nostre estensioni. In questo scenario attuale il loro uso indiscriminato è contorno di una distrazione che porta via la mente dal “circuito” comportamentale: assente l’ipnosi orgasmica presente fin dai tempi remoti nel consumo del cibo. A fronte di questi fattori, forti generatori di obesità, l’esperto del dimagrimento (dietologo/nutrizionista/dietista/psicologo) spesso non valuta il proprio cliente nel proprio contesto di vita, non lo comprende nel suo passato, nelle sue istituzionalizzazioni, nei suoi comportamenti inadeguati, nel suo cervello affamato. “L’analisi del concetto greco di epimeleisthai (“prendersi cura di se stessi”) pone due problemi fondamentali: 1) “Prendersi cura di sé” e 2) in “cosa consista questa cura.” Prendersi cura di sé vuol dire conoscere sé stessi ed il miglior modo per farlo è quello di valutare la propria esistenza (anche quella alimentare) sotto molteplici prospettive. Questa è la chiave di lettura della filosofia greca. La/e prospettiva/e di questo libro.

Claudio Lombardo