Politik | Cultura politica

Montesquieu arruolato per comodità

"Lo Spirito delle leggi" è poco letto e molto citato. Spesso a sproposito.

Non c’è partito politico che non invochi - con puntuale cadenza periodica - il pensiero di Montesquieu. Tempi addietro – prima di avventurarsi in simili citazioni – era d’obbligo portare una bella barba folta e degli occhialoni vistosi. Oggi è accettato anche un videomessaggio, una faccia sbarbata e un’aria giovanile. I tempi cambiano, le abitudini si evolvono, Montesquieu resiste: non passa di moda. Barbe e occhiali di partito hanno ripetuto il vangelo altisonante della separazione dei poteri per sostenere le tesi più disparate. Lo stesso principio è stato poi ripetuto dalle facce belle e pulite. Un critico francese, Jean Starobinski diceva che Montesquieu non ha nemici: a differenza di altri pensatori e giuristi oggetto di animata controversia, Montesquieu è accettato più o meno da tutti. Riposa nella pace delle biblioteche e nel Panthéon dei moderni sistemi democratici.

Ogni politico è convinto di averne compreso il pensiero e quando vuole darsi un’aria da intellettuale allora cita la seguente teoria: i poteri dello Stato sono tre. Il potere legislativo approva le leggi, il potere esecutivo dà loro esecuzione e il potere giudiziario le applica. Quando una barba o un volto ben rasato spiega questa teoria, sottintende spesso anche un suo presunto corollario: il potere giudiziario - vale a dire la magistratura - deve svolgere un ruolo subalterno rispetto al potere legislativo. Il giudice non deve interpretare la legge, ma applicarla. Quasi meccanicamente. Quasi fosse un automa. Una «longa manus» del potere legislativo, espressione indiretta del popolo sovrano. Per giustificare questa idea si ricorre a una frase, scritta da Montesquieu in un capitolo tra i più noti della sua fondamentale opera “Lo spirito delle leggi”: il pensatore francese aveva infatti definito il giudice «bocca della legge». Questa teoria, così stilizzata, ha delle conseguenze enormi sulla odierna concezione della democrazia di massa: la maggioranza in parlamento detiene il potere politico, esprime l’esecutivo e - come se non bastasse – impone al giudice-bocca della legge di «applicare» le proprie norme. Poiché la maggioranza politica è espressione della volontà popolare, si ritiene che essa debba detenere il monopolio della produzione del diritto e che la magistratura debba essere totalmente asservita alla sua volontà e alla sua legge.

Questa teoria – chiamata in causa con vigore dal politico “colto” barbuto o sbarbato – non solo non è mai stata formulata da Montesquieu in questi termini, ma nasconde dei presupposti pericolosamente autoritari. Montesquieu concepiva il potere giudiziario come un «contrappeso»: il potere limita il potere. Egli scriveva circa mezzo secolo prima della rivoluzione francese e la caduta della monarchia gli pareva un evento inimmaginabile: egli criticava le tendenze accentratrici della Corona. Quelle tendenze accentratrici non furono distrutte, ma riprese e perfezionate dalla Rivoluzione prima e dal regime napoleonico poi.

Per questa ragione è del tutto abusivo arruolare Montesquieu tra i profeti del centralismo politico e dell’asservimento del potere giudiziario al potere legislativo. Singolarmente questa deformazione iperlegalista del pensiero del filosofo francese si coniuga con il rifiuto dell’autonomia e degli enti locali. Si dimentica così che Montesquieu ammirava il sistema politico federale; scrisse pagine che ispirarono i costituenti americani e che furono intramontabili.

L’attacco sferrato dalla politica al potere giudiziario e le sferzate legislative contro il principio autonomistico e il decentramento politico e amministrativo sono sintomi dello stesso male. A sostegno di queste scelte sconsiderate si può anche citare Montesquieu. Perché non lo si è mai letto o perché il filosofo di La Brède non ha – come diceva Starobinski – alcun nemico (è insomma popolare). Così facendo si tradisce però il suo pensiero. Poco importa se consapevolmente o ingenuamente. Si tradisce lo spirito della sua opera e la critica che egli rivolgeva alle istanze centraliste del suo tempo. Fabula de nobis.