Politik | 70 Jahre Pariser Vertrag

La semplicità del testo

Teil 4 der salto-Serie: Andrea Di Michele sull´Accordo De Gasperi-Gruber e sulla situazione tra Italia, Austria e Alto Adige nel dopoguerra.

Attorno all’Accordo De Gasperi-Gruber si sono cristallizzate letture e interpretazioni che, a 70 anni di distanza, nonostante evidenti elementi di fragilità, mantengono la loro presa. In parte ciò ha a che fare con l’inevitabile personalizzazione di un accordo che porta il nome dei due firmatari e ai quali si assegna un ruolo probabilmente eccessivo nell’intera vicenda. Ecco così che da una parte si disegna l’immagine di un De Gasperi santo, o per lo meno beato, che fa della convivenza pacifica dei gruppi linguistici in chiave europeista il senso della propria politica, per giungere all’opposto a un De Gasperi trasfigurato in diabolico ingannatore, interessato esclusivamente a regalare l’autonomia al proprio Trentino, raggirando un povero Gruber cui si fa fare la figura del politico inesperto, se non sprovveduto. Tutto questo con riferimenti a volte deboli, a volte strumentali, a volte del tutto assenti al contesto più ampio al cui interno i due uomini politici sono costretti a muoversi.

Se vogliamo sottrarre l’Accordo di Parigi al mito, positivo o negativo che sia, la prima cosa da fare è togliere buona parte dei meriti o delle colpe ai due ministri degli esteri che lo hanno firmato. Per usare una formula un po’ paradossale potremmo dire che a scrivere quel testo, a disegnare quel patto fu più il contesto internazionale che i due protagonisti che vi hanno dato il nome.

„Se vogliamo sottrarre l’Accordo di Parigi al mito, positivo o negativo che sia, la prima cosa da fare è togliere buona parte dei meriti o delle colpe ai due ministri degli esteri che lo hanno firmato.“

E il contesto è quello postbellico, in cui le potenze vincitrici ridefiniscono gli equilibri tra le potenze dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale. Italia e Austria si giocano la partita sulle sorti dell’Alto Adige/Südtirol, con Roma che ha in mano carte migliori che le consentono di tenere saldo il confine al Brennero, facendosi però in cambio carico di una serie di impegni sanciti dall’accordo firmato a Parigi.

Innsbruck 1946: 155.000 firme per il Sudtirolo.

La prima buona carta per Roma è rappresentata dalla totale assenza del tema dell’autodeterminazione dei popoli al tavolo della pace. L’Austria e i sudtirolesi chiedono che siano gli abitanti dell’Alto Adige a esprimersi sulla sorte della provincia, ma nessuno tra i vincitori è interessato a mettere sul tavolo lo scottante argomento del rispetto dei diritti delle nazionalità e tanto meno dell’autodeterminazione dei popoli. La nuova Europa della guerra fredda viene ridisegnata avendo quale unico punto di riferimento l’equilibrio tra le superpotenze, con un disinteresse assoluto per le sorti delle minoranze linguistiche. In particolare il centro Europa appare come un puzzle incomponibile e l’Urss tutto vuole tranne che un precedente basato su linee di demarcazione etniche o dichiarazioni di principio impegnative sul fronte del rispetto del diritto delle minoranze. Lo stesso vale per le potenze occidentali preoccupate dei loro domini coloniali. I Grandi, vincitori della guerra, non hanno alcun interesse a lasciar decidere alla popolazione residente le sorti di questo territorio etnicamente misto, scatenando in mezza Europa, specie orientale e balcanica, una corsa a richiedere il ricorso a soluzioni analoghe.

L’Italia era in una situazione particolare, quella di paese “cobelligerante”, come veniva definito e riconosciuto dagli stessi alleati.“

La seconda carta a favore dell’Italia è la sua collocazione sullo scenario internazionale. L’Italia alla fine della guerra è un paese in una situazione difficile. È un paese sconfitto, un paese aggressore, responsabile insieme alla Germania di aver voluto la guerra per sovvertire l’ordine internazionale. È però anche un paese in cui il fascismo è caduto nel luglio 1943, a guerra in corso, e che nel settembre dello stesso anno ha firmato un armistizio con le potenze alleate, contribuendo poi all’impegno bellico antinazista attraverso l’esercito del regno del sud e la lotta partigiana. Ciò aveva messo l’Italia in una situazione particolare, quella di paese “cobelligerante”, come veniva definito e riconosciuto dagli stessi alleati. Diversa la situazione dell’Austria, le cui sorti restano legate al Reich nazista fino alla fine della guerra e che non conosce un movimento resistenziale paragonabile a quello italiano. Vienna costruisce con intelligenza l’immagine dell’Austria quale prima vittima del nazismo, che però convince e viene riconosciuta solo in parte. Questo e il diffuso anti tedeschismo presente in Europa non sono un buon viatico per le richieste sudtirolesi. Difficile immaginare che i vincitori facciano concessioni importanti a una popolazione di lingua tedesca dopo la guerra, dopo quella guerra e con la memoria ancora viva del ruolo che le minoranze di lingua tedesca avevano svolto nello scardinare gli equilibri internazionali, conducendo al conflitto generale. Il sentimento antitedesco si manifesta chiarissimo anche attraverso il sostanziale disinteresse mostrato dagli alleati occidentali e dalle loro opinioni pubbliche nei confronti del dramma dei milioni di tedeschi espulsi con la violenza dagli ex territori orientali del Reich.

„Vienna costruisce con intelligenza l’immagine dell’Austria quale prima vittima del nazismo, che però convince e viene riconosciuta solo in parte.“

Se tutto ciò è importante, decisivo è il ruolo rivestito dall’Italia nella nuova geografia disegnata dalla cortina di ferro. Liberata e occupata dagli angloamericani, l’Italia rientra chiaramente nel blocco occidentale, si trova a diretto contatto con l’est comunista e ha al suo interno il più forte e temibile partito comunista dell’intero occidente. Dunque un paese a rischio, dalla collocazione strategica, che gli alleati si preoccupano di consolidare attraverso aiuti economici e alimentari e soprattutto attraverso il sostegno al baluardo della democrazia occidentale, vale a dire allo scudo crociato di De Gasperi. La Democrazia cristiana e i suoi governi beneficeranno a lungo di questa situazione, ottenendo sostegno economico e politico dagli Stati Uniti. Un alleato di tale importanza e fragilità non poteva essere indebolito oltre misura. Le amputazioni dei territori orientali e la lunga incertezza circa le sorti della città di Trieste avevano prodotto un rigurgito nazionalista potenzialmente destabilizzante che andava contenuto a tutto beneficio della stabilità interna. Meglio dunque un Alto Adige da lasciarsi all’Italia piuttosto che alla piccola e meno importante Austria, per di più occupata anche dal nemico sovietico e le cui sorti apparivano troppo incerte. De Gasperi fa leva anche sull’importanza dell’energia idroelettrica altoatesina per la ripresa produttiva del triangolo industriale, elemento decisivo per la crescita e dunque la stabilizzazione dell’intero paese.

La questione del confine del Brennero va dunque letta in questo contesto complessivo, solo in minima parte determinato dalle due parti in causa. In quel frangente i margini di manovra di Austria e Italia sono assai limitati e sarebbe pertanto sbagliato ricondurre l’intera vicenda alle mosse dei due giocatori, mettendo al centro le figure di De Gasperi e Gruber, le loro capacità, i loro limiti, le loro astuzie.

Veniamo infine alla questione della “furbizia” degasperiana, all’accusa che viene mossa all’uomo politico trentino di aver voluto favorire i propri conterranei regalando loro l’autonomia, tradendo così gli accordi presi con Gruber che pensava a un’autonomia solo per i sudtirolesi. Davvero le ragioni della cornice regionale dell’autonomia sono da ricercarsi nel legame personale di De Gasperi con il Trentino? Mi pare una lettura riduttiva. Le ragioni sono piuttosto legate a valutazioni che attengono all’interesse nazionale e agli equilibri politici interni.

La concessione di un’autonomia speciale al solo Alto Adige in quanto territorio prettamente tedesco appariva pericolosa per l’integrità nazionale oltre che difficile da far accettare all’opinione pubblica e alle forze politiche moderate e conservatrici. Per molti sarebbe stato un primo passo verso il distacco del territorio. Molto meglio ancorare indissolubilmente l’Alto Adige al Trentino, la “zavorra” capace di tenere saldo verso sud il territorio di confine. Del resto considerazioni del tutto simili erano state fatte dall’Austria-Ungheria di fronte alle ripetute richieste di autonomia separata per il Trentino, avanzate a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche allora si era ritenuto che dar vita ad un’unità amministrativa autonoma di un territorio italiano ai confini dell’Italia avrebbe aumentato invece che ridotto le spinte secessioniste.


Alcide De Gasperi, Karl Gruber: La furbizia degasperiana?“
 

Inoltre, solo un’autonomia che fosse regionale sarebbe stata accettata da una opinione pubblica fortemente venata di nazionalismo, animata dallo sdegno per la perdita delle colonie e dei territori orientali e per l’incerta situazione di Trieste. Anche i partiti e la cultura giuridica e politica del paese non erano certo orientati in maggioranza verso soluzioni autonomiste, tanto meno se da concedersi a un territorio prettamente tedesco. Le voci centraliste erano fortissime nelle istituzioni, nella costituente, nei ministeri, nella macchina dello stato e De Gasperi dovette sottolineare più volte come non si fosse intaccata la sovranità nazionale, smentendo quanto apparso su organi di stampa secondo cui si stava dando vita attraverso l’Accordo e lo Statuto a “una serie di repubblichette che disgregherebbero la repubblica Italiana”. De Gasperi in tutta questa vicenda non rappresenta la chiusura nazionale verso le richieste sudtirolesi, ma piuttosto la parte più sensibile a temi quali il decentramento e le autonomie locali. Dietro di lui le posizioni erano orientate in maggioranza su posizioni di netto centralismo, disposte ad accettare un’autonomia per l’intera regione se proprio necessario per conservare il Brennero, ma non certo a regalare una condizione di privilegio a un nucleo tedesco potenzialmente irredentista. Se queste erano le posizioni a Roma si può immaginare quali fossero tra gli italiani di Bolzano, dove prevalevano gli orientamenti duramente nazionalisti, se non neofascisti. È sufficiente leggere le pagine del quotidiano “L’Alto Adige” di quegli anni per avere il polso dello spirito pubblico italiano nella provincia di confine.

„Solo un’autonomia che fosse regionale sarebbe stata accettata da una opinione pubblica fortemente venata di nazionalismo, animata dallo sdegno per la perdita delle colonie e dei territori orientali e per l’incerta situazione di Trieste.“

E poi c’erano i trentini, anch’essi desiderosi di vedersi riconosciute forme speciali di autogoverno. Quei trentini già delusi per le modalità con cui si era condotto il processo di integrazione delle nuove province nel contesto politico-amministrativo italiano alla fine della prima guerra mondiale. Dopo il 1918 erano stati proprio i popolari, con De Gasperi in testa, a chiedere che fosse assegnato maggiore spazio a organismi in grado di rilanciare forme di autogoverno a livello provinciale, recuperando il più possibile la tradizione asburgica di decentramento. Agli occhi delle autorità nazionali, l’insistente richiesta di mantenimento degli istituti autonomi a livello comunale e provinciale aveva fatto apparire simili le posizioni dei trentini a quelle dei sudtirolesi, contribuendo ad aumentare i dubbi sulla loro affidabilità nazionale. Ora, dopo la seconda guerra mondiale, le richieste si ripetono e conducono al successo elettorale di una forza separatista come l’Asar, capace di pescare a piene mani nel bacino elettorale della Democrazia cristiana. De Gasperi deve tener conto delle aspirazioni dei trentini, ma non in quanto trentino, piuttosto perché da presidente del consiglio vede con preoccupazione quanto vi sta avvenendo e perché considera legittime le aspirazioni autonomiste di quella terra, aspirazioni di cui egli stesso era stato portatore dopo il 1918. «Liberi municipi e comuni senza ingerenza statale d’indole amministrativa e provincia autonoma con una giunta elettiva, indipendente dal prefetto»; maggior ruolo agli enti locali, i quali «reclamano la loro autonomia, domandano cioè di non venir assorbiti dall’amministrazione burocratica statale centralizzatrice»: questo aveva chiesto De Gasperi per il Trentino nel 1919. Nessuna furbizia, piuttosto la coerenza e la consapevolezza di ciò che avviene a Trento lo portano a disegnare il quadro regionale dell’autonomia. Il giudizio negativo solitamente espresso su questa scelta pare il frutto di ciò che è avvenuto dopo, del fallimento della gestione dell’autonomia da parte di Trento, coi suoi tratti miopi e revanscisti che hanno prodotto le tensioni destinate a esplodere nei decenni successivi.

Considerando la generale situazione nel secondo dopoguerra, il clima predominante, la considerazione pressoché nulla che ebbe la questione del trattamento delle minoranze, l’Accordo De Gasperi-Gruber rappresenta un unicum a livello internazionale. La minoranza sudtirolese è stata la sola, in quel frangente, a ottenere una garanzia in sede internazionale. Parliamo dunque di un accordo contro corrente, che oltre a prevedere garanzie per una minoranza linguistica delinea forme di collaborazione e di scambio tra due paesi confinanti, anticipando in maniera moderna temi tipici dell’integrazione europea. A leggerlo, come è necessario, inquadrandolo in quel preciso momento e non con la mente a quello che è avvenuto dopo, è difficile non riconoscerne i pregi. Anche la semplicità del testo, la sua genericità e quindi, di conseguenza, la sua flessibilità, hanno offerto la possibilità di farvi riferimento in una fase successiva, in un contesto differente, per trovare soluzioni originali a problemi nuovi e diversi.

Insomma, senza retorica e senza postume santificazioni o maledizioni, e senza nasconderne i limiti e soprattutto le difficoltà di applicazione, l’Accordo di Parigi ha rappresentato un oggettivo passo in avanti nella questione sudtirolese, affrontata per la prima volta in una logica di collaborazione e non più di sopraffazione.

Der Autor

Andrea Di Michele è nato a Bolzano nel 1968. Ha studiato storia contemporanea alle Università di Bologna, Tübingen e Torino, dove ha conseguito il dottorato di ricerca.È stato archivista all’Archivio provinciale di Bolzano, docente a contratto di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell'Università di Trento ed ora è ricercatore presso il Centro di competenza Storia regionale della Libera Università di Bolzano.
Ha pubblicato il volume Storia dell’Italia repubblicana 1948-2008, Milano, Garzanti, 2008, recentemente ristampato e utilizzato come libro di testo in diverse università italiane nei corsi di storia contemporanea e storia dell’Italia contemporanea. Per quanto riguarda le pubblicazioni di ambito regionale si ricordano:
L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria 2003 (tradotto in tedesco nel 2008 con il titolo Die unvollkommene Italianisierung)
La Zona d’operazione delle Prealpi nella seconda guerra mondiale Trento 2009 (pubblicato anche in tedesco con il titolo Die Operationszone Alpenvorland im Zweiten Weltkrieg, insieme a Rodolfo Taiani)
La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), Bologna, il Mulino, 2015 (con Diego D’Amelio e Giorgio Mezzalira).
Attualmente lavora a una mostra fotografica sulla partecipazione italiana alla guerra civile spagnola che sarà esposta a Barcellona al Museu d’Història de Catalunya alla fine di quest’anno e a un libro sull’esperienza dei soldati di lingua italiana nell’esercito austro-ungarico durante la prima guerra mondiale.

ENDE DER SERIE
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Daniele Menestrina So., 04.09.2016 - 15:03

Trovo l'iniziativa di Salto molto ben fatta ed interessante. Ad ognun' lettore poi le sue valutazioni personali.
L'unica mia perplessità però è che a parte la professoressa Pfanzelter gli altri tre autori hanno scritto tutti il cognome di Alcide Degasperi in modo errato (De Gasperi), cosa che non mi sarei aspettato da storici e giornalisti affermati.

So., 04.09.2016 - 15:03 Permalink
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Riccardo Dello… Mi., 07.09.2016 - 18:11

La relazione di Andrea è stata in assoluto la migliore e più approfondita di tutte, poiché ha inserito l'accordo nel giusto contesto internazionale. Non c'erano alternative, questa è la verità.
Gli altri storici si sono accapigliati inutilmente sulle personalità dei due uomini politici: se Gruber era un fesso, se Degasperi un bugiardo, ecc... Questioni secondarie, come ha dimostrato Andrea Di Michele, che è piaciuto a molte persone anche inaspettate (Durnwalder mi ha detto: ottima relazione, la migliore, tranne l'ultima considerazione su Degasperi).
Su De Gasperi o Degasperi Andrea ha una spiegazione, non so se vuole rispondere (io temo di confondermi).

Mi., 07.09.2016 - 18:11 Permalink
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Daniele Menestrina Do., 08.09.2016 - 08:40

Antwort auf von Alberto Stenico

Maria Romana è stata sempre la più vanitosa delle figlie e vivendo a Roma pensava che usando DE staccato fosse più chic, le desse un tocco di nobiltà nei circoli che frequentava. Degasperi si firmava sempre tutto attaccato così come suo padre. Tutti i documenti ufficiali tipo certificato di nascita ecc riportano ovviamente Degasperi così come anche il monumento a TN. Se uno vuole cambiarsi il cognome va rispettata la decisione ma visto che in questo caso non è mai avvenuto se la figlia se lo è cambiato non significa che dobbiamo storpiare anche quello del padre.

Do., 08.09.2016 - 08:40 Permalink