Politik | Grande Guerra

Il Fronte dimenticato

Parlare di Grande Guerra senza retoriche nazionaliste? Per alcuni un’eresia, per altri il solo modo per capire e raccontare in maniera obiettiva gli anni del conflitto.
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Foto: scalarini

La Grande Guerra è stata e rimane tutt’oggi uno dei capisaldi dello stato nazione e della sua narrazione. “L’Esercito austro-ungarico è annientato”, recitava il bollettino di guerra n. 1268 rilasciato alle ore 12.00 del 4 novembre 1918 dall’allora generale Armando Vittorio Diaz. Quattro anni dopo la data fu dichiarata Festa nazionale, più precisamente Giorno dell’Unità nazionale e Giornata delle Forze armate, mentre quest’anno coincide anche con il centenario della tumulazione del Milite ignoto all’Altare della Patria.
Tra commemorazioni, inchini e corone di fiori, le celebrazioni che accompagnano questa data si ricoprono di un manto di sacralità apparentemente impossibile da scalfire. Per anni il conflitto, che sia dalla parte dei vinti che dei vincitori, è stato letto esclusivamente attraverso la lente del patriottismo e della propaganda nazionalista, celebrando come eroiche le imprese dei soldati mandati a combattere (e spesso morire) al fronte e biasimando, colpevoli di vigliaccheria, coloro che da questo onere ed onore hanno voluto sottrarsi. Da questa rigida dicotomia scompaiono episodi sgraditi alla retorica ufficiale ma al contempo fondamentali per comprendere a pieno le drammatiche vicende intercorse tra il 1914 e il 1918. Se la recente storiografia ha fatto udire il proprio sussulto raccontando, talvolta anche nei canali più mainstream, episodi di diserzioni, renitenze e insubordinazioni dei soldati impegnati sui fronti esterni, molto più oscure sono le vicissitudini legate al cosiddetto “Fronte interno” e che, tolto il velo di retorica, ha visto emergere un importante mosaico di mobilitazioni femminili del tutto assenti dalla famigerata memoria collettiva. Consegnate all’oblio della storia, le donne in tutta Europa, Italia e persino dell’allora Tirolo storico (allora sotto dominio asburgico) si sono invece rese protagoniste di importanti e inediti moti di protesta durante tutti gli anni del conflitto. Un fronte a tutti gli effetti e che, grazie ad alcuni storici come Anselmo Vilardi della Fondazione Museo Storico Trentino, sta venendo gradualmente riabilitato all’altare della storia.


salto.bz: Dott. Vilardi, ogni 4 novembre si rimanda alla Grande Guerra come una tappa fondamentale per l’unità nazionale italiana. Vengono celebrati gli sforzi di chi, animato da grandi valori patriottici, si è sacrificato al nemico per amore di una Nazione. Tale narrazione, seppur condita da leggere varianti, non ha mai smesso di essere riproposta all'interno delle celebrazioni. Ma quanto di questo racconta assomiglia effettivamente alla realtà?

Anselmo Vilardi: La visione della Grande guerra come momento patriottico di realizzazione dell’ideale nazionale italiano appare ancora oggi diffusa in determinati contesti culturali e soprattutto politico-istituzionali. Non a caso si è a lungo utilizzato, e a volte si utilizza ancora, il richiamo al 1915 come l'inizio della quarta guerra d’indipendenza. Credo però sia più opportuno spostare l'immaginario collettivo su altri concetti già ampiamente diffusi in ambito storiografico in grado di interpretare questo conflitto come "guerra civile europea" o come l'inizio della "seconda guerra dei trent'anni", intesa come il periodo tra il 1914 e il 1945 che vide l'Europa dilaniata dalla contrapposizione tra stati nazionali culminata nelle due guerre mondiali, da cui l'intero continente - vinti e vincitori - uscì devastato e indebolito. Senza voler esaltare visioni e dinamiche culturali portate avanti all'interno degli odierni ambiti militari tedeschi rispetto ai corrispettivi italiani, da cittadino più che da storico, sono stato positivamente stupito dal motto di una campagna di arruolamento del Bundeswehr, l'esercito federale tedesco, che recita "Wir kämpfen auch dafür, dass Du gegen uns sein kannst" ("combattiamo anche perché tu possa essere contro di noi"). Questa formula, seppur teoricamente, esprime bene la visione che un esercito di una nazione democratica dovrebbe perseguire: un sistema che vive non solo del riconoscimento di comuni ideali e di un legame politico-istituzionale collettivo ma anche e soprattutto della capacità di considerare le forme di opposizione e le proteste una parte costitutiva della propria civiltà. Per questo credo sia ancora più opportuno in occasione delle celebrazioni del 4 novembre volgere lo sguardo anche verso le forme di opposizione e le proteste della popolazione che scaturirono nell'allora Tirolo austro ungarico (oggi Trentino, Alto Adige/Südtirol e Tirolo austriaco) e in tutta Europa durante la Prima Guerra Mondiale.

 

L’inizio della guerra, oltre che morte e sofferenza per milioni di soldati al fronte, ha significato anche repressione, censura e propaganda portata avanti sul territorio nazionale. Sui fronti di guerra si comincia in poco tempo a disobbedire e disertare, sul "fronte interno" si moltiplicano i moti di proteste nelle strade e nelle fabbriche. Chi sono le persone che hanno cominciato a scendere in piazza all'inizio del conflitto e continuato a farlo gli anni successivi?

In tutta Europa, e non solo nel Regno d'Italia e nell'impero austro ungarico, la mobilitazione collettiva delle popolazioni dei vari stati in lotta non fu esente da forme di rifiuto della guerra e più in generale di proteste contro i lutti e le condizioni di vita prodotte dal conflitto. Tra i protagonisti di questa tendenza antibellicista si ascrivono una serie di forze organizzate (organizzazioni politiche, associazioni, ecc.) ma anche singoli militanti e intellettuali. In primo luogo troviamo il movimento socialista europeo, i cui ideali internazionalisti furono spezzati dallo scoppio del conflitto, con la spaccatura tra coloro che accettarono di partecipare allo sforzo bellico del proprio Stato nazionale, chi decise di mantenersi in posizioni più neutrali e chi, al contrario, si oppose in forme diverse sia all'entrata in guerra, sia successivamente ai montanti nazionalismi. Con l’entrata in guerra la rete organizzativa della “Società per la pace”, nata nei decenni precedenti, si disgregò lasciando così spazio a un pacifismo più radicale in ambito intellettuale, capace di rivelare il vero volto di un conflitto che colpiva deliberatamente la popolazione civile, di affermare l’incompatibilità tra guerra e cristianesimo, tra militarismo e dignità delle donne, e di mantenere i legami al di là delle barriere nazionali. Anche il mondo religioso si divise tra quanti sostennero la dottrina della guerra giusta, riaffermata da gran parte della gerarchia cattolica, e quanti ne espressero forme di rifiuto, provenienti da settori del mondo cattolico e protestante ma soprattutto dalle cosiddette chiese “di pace” (ad esempio i mennoniti, i quaccheri), pressoché le uniche a professare la resistenza alla guerra tout court. Queste (e anche altre) forme organizzate di rifiuto della guerra furono tuttavia affiancate anche da un gran numero di proteste e agitazioni delle masse popolari.


Quale fu la natura dei moti di protesta che si svilupparono in quegli anni? 

In alcuni casi queste manifestazioni mantennero una natura esclusivamente spontanea, con un forte ruolo del mondo femminile e dei lavoratori impegnati nella produzione bellica che manifestarono, soprattutto nell'ultima fase della guerra, contro le sempre più difficili condizioni di vita, ma anche per chiedere la fine del conflitto. In alcuni casi queste agitazioni di carattere spontaneo si incrociarono con l'impegno del mondo socialista, ad esempio in Austria-Ungheria, dove il partito socialdemocratico, nei primi anni di guerra quasi completamente sottomesso allo sforzo bellico imperiale, rivolse il suo impegno anche all'espressione delle rivendicazioni delle masse oppresse dalla guerra.

E a livello locale?

Nel Tirolo storico (corrispondente all'odierno Trentino, Alto Adige/Südtirol e Tirolo austriaco) le proteste, sia quelle contro la guerra sia quelle contro le condizioni di vita, mantennero un carattere fortemente spontaneo, senza o con scarsi legami con il mondo socialista, fortemente indebolito dallo scoppio del conflitto. Si hanno attestazioni di manifestazioni organizzate dal movimento socialista ad esempio un raduno di protesta guidato dal deputato socialdemocratico Simon Abram a Innsbruck nel gennaio 1918. Ma si tratta di esempi limitati, in quanto sia la debolezza del movimento già prima della guerra (ad esempio in Nord Tirolo) sia la sua quasi completa disgregazione contro l'entrata dell'Italia in guerra (come nel caso del Trentino) impedirono un protagonismo socialista in questo ambito nella provincia tirolese. Al contrario è stato possibile ricostruire per questo territorio un gran numero di manifestazioni scaturite dalla popolazione.

La storiografia ufficiale ha relegato la donna della Grande Guerra a una posizione generalmente passiva o comunque funzionale al sollievo degli uomini impegnati al Fronte. Negli anni più recenti diverse correnti di studi hanno cominciato a riabilitarne il ruolo politico, restituendo loro il protagonismo che le ha caratterizzate durante gli anni del conflitto. Da dove è partita questa riesumazione?

La centralità del protagonismo femminile fu sicuramente un altro dei dati più significativi dei movimenti di protesta che caratterizzarono tanto la dimensione locale quanto quella europea durante entrambi i conflitti mondiali, in cui le donne assunsero un ruolo assolutamente nevralgico all’interno della società. Questa rottura degli schemi di lungo periodo, peraltro già lentamente e faticosamente avviata dalla fine dell'Ottocento, subì una forte accelerazione durante i conflitti in seguito all'arruolamento di massa della componente maschile della società inviata al fronte. La popolazione civile rimasta, composta in maniera preponderante nella fascia adulta da donne, dovette dunque assumere funzioni e ruoli anche in sostituzione degli uomini assenti e questo avvenne non solo nell'economia e nella vita quotidiana ma anche nelle dinamiche sociali. Di conseguenza, anche i moti di protesta della popolazione durante la prima guerra mondiale furono contraddistinti in molti casi da una centralità del mondo femminile.

Le manifestazioni popolari spontanee di donne si moltiplicano: inizialmente limitate a specifiche rivendicazioni di carattere alimentare, si sono evolute rapidamente in raduni diffusi su tutto il Trentino per invocare la fine della guerra e il ritorno a casa degli uomini arruolati

Nel Tirolo austro-ungarico si sono alternate diverse fasi di agitazione popolare. Come si caratterizzano (e differenziano) tra di loro?

Nella primavera del 1915 in Tirolo, ma in generale nell'impero austro ungarico, iniziò a diffondersi un clima di fondamentale disillusione: le elevate perdite di uomini sul fronte galiziano, i soldati feriti che riempivano gli improvvisati ospedali di valle e la smentita della promessa di una guerra breve stavano gettando la popolazione nello sconforto. Iniziavano inoltre ad affacciarsi le prime difficoltà nei rifornimenti alimentari che andavano sempre più a peggiorare le condizioni di vita generali. Nei resoconti ufficiali dei Capitanati distrettuali di Trento, Mezzolombardo, Bolzano, Merano, Bressanone iniziarono ad aumentare i riferimenti alla "stanchezza della guerra", all’avvilimento, alla passività, all’acuto desiderio di pace della popolazione tirolese. Le manifestazioni popolari spontanee di donne si moltiplicano: inizialmente limitate a specifiche rivendicazioni di carattere alimentare, si sono evolute rapidamente in raduni diffusi su tutto il Trentino per invocare la fine della guerra e il ritorno a casa degli uomini arruolati. E così il 20 aprile 1915 a Riva del Garda si tenne una nuova manifestazione sempre a prevalenza femminile, organizzata, sembra, da una giovane contadina del luogo, Carlotta Santoni, che improvvisa pure un breve comizio: "Per porre fine a questa guerra, nella quale come si vede gli austriaci perdono sempre, noi donne dobbiamo […] radunarci insieme e organizzare rivoluzioni perché è tempo ormai che questa guerra finisca, i miei fratelli sono già tutti storpi e i nostri mariti resteranno uccisi". Per queste espressioni il 3 luglio 1915 Santoni fu prima condannata dal Tribunale militare di Linz a otto mesi di carcere duro e in seguito internata in quanto "politicamente inaffidabile" nel campo di Katzenau.

Possiamo definirlo come un episodio isolato?

Niente affatto. Il 24 aprile 110 donne, provenienti da alcuni sobborghi sudorientali di Trento (Ravina, Aldeno, Romagnano, Cimone e Mattarello), manifestarono a Trento, urlando di fronte ai cordoni di polizia: "Pace! Pace!", "Vogliamo i nostri uomini!", "Vogliamo la pace!", "Vogliamo pane!". Alla fine, una loro delegazione con una petizione scritta indirizzata all’Imperatore venne ricevuta dalle autorità. Il 27 aprile centinaia di donne provenienti dal territorio a ovest di Rovereto cercarono di raggiungere Trento per pretendere la fine della guerra ma vennero respinte dalle forze del'ordine; anche in Vallarsa, nel distretto di Rovereto, il 26 aprile 300 donne reclamarono “la più rapida fine della guerra”, ovvero “che venga fatta la pace e tutti gli uomini che vengano mandati a casa” e imposero al locale Capocomune di mettere formalmente a protocollo le loro richieste, sottoscritte da 228 di loro. Questa stagione di manifestazioni popolari in Trentino si interruppe con l'entrata dell'Italia in guerra: Il Tirolo meridionale divenne fronte di guerra, il territorio fu ulteriormente militarizzato e una parte della popolazione addirittura evacuata in altre aree dell'impero.


A quale fase spalancò le porte invece l'ultimo anno di guerra, dal 1917 al 1918?

In questo secondo momento in tutto l'impero austroungarico, dove fino a quel momento il sistema politico ed economico era riuscito a mantenere nel corso del conflitto la stabilità interna, iniziò a diffondersi sempre più tra la popolazione civile insofferenza verso la guerra e verso le sempre più difficili condizioni di vita. In questa fase, in tutto il Tirolo numerose furono le manifestazioni; tra le molte, a Merano tra l'8 e il 13 giugno 1917 centinaia di donne (il 12 giugno superano il migliaio) si radunarono 3 volte per pretendere migliori rifornimenti alimentari; nell'estate dell'anno successivo a Kufstein il 19 e il 23 agosto alle donne si unirono anche gli operai militarizzati; a Schwaz il 19 luglio 2.000 persone di ogni ceto sociale manifestarono per la fame, così come a Kitzbühel il 29 agosto. Nel Trentino dell'epoca si contarono decine di momenti di proteste, diffusi nel capoluogo e in tutte le valli, da Tione a Cles. Le manifestazioni in Tirolo di questa fase, che perdurano fino alla fine del conflitto, si contraddistinsero anche in questo caso per la natura quasi esclusivamente spontanea e, al contrario della primavera del 1915, per la centralità predominante delle rivendicazioni di carattere alimentare.
 


Cosa resta del protagonismo femminile e di tutte queste sollevazioni popolari al ritorno degli uomini dal fronte? E perché tutt'oggi non esiste una memoria collettiva e condivisa su questi avvenimenti?

Nel corso del Novecento, per diversi decenni dopo la Grande guerra, la narrazione storiografica e politica-istituzionale inerente il conflitto è stata dominata in tutta Europa dalla chiave di lettura patriottica. Lo scopo del racconto era infatti quello di contribuire alla costruzione di un’identità nazionale, con l'obiettivo primario di esaltare le conquiste scaturite dalla vittoria, per le nazioni vincitrici, o elaborare il lutto della sconfitta, nel caso opposto. Anche il racconto delle sofferenze delle popolazioni locali e dei territori venne per la maggior parte piegato a questa logica, in una prospettiva che andava a leggere le devastazione della guerra in un’ottica di “martirio” di impostazione cristiana: il dolore diveniva un passaggio necessario per la "redenzione" patriottica; non a caso, si utilizzarono termini come “terre redente” per i territori annessi all'Italia al termine del conflitto e si definirono figure come Cesare Battisti “martiri” dell’italianità. In questa prospettiva le vicende connesse alle forme di opposizione alla guerra, e più in generale alle proteste contro lo sforzo bellico durante il conflitto, vennero lungamente sottaciute, quando non esplicitamente espunte dalla narrazione collettiva, in quanto non congeniali al racconto di stampo nazionale. In merito al caso trentino e sudtirolese, dopo la fine della guerra, le manifestazioni popolari durante questo periodo vennero rapidamente cancellate dall’immaginario collettivo, probabilmente anche per l’impossibilità di inserirle in questo schema. Il forte protagonismo femminile apparve invece ancora di più “fuori scala”, specie perché non reintegrabile negli schemi tradizionali del rapporto uomo-donna all’interno della società che si voleva ripristinare con il "ritorno alla normalità", prodotto dal rimpatrio degli uomini precedentemente arruolati sui fronti di battaglia.

I  pochi casi dove il ruolo politico delle donne durante la guerra venne valorizzato nella memoria collettiva e nella storiografia degli anni successivi si concentrarono negli episodi di partecipazione femminile alla causa irredentista, vale in quelli esempi inseribili nel racconto patriottico della “redenzione” del Trentino e dell'Alto Adige che si voleva costruire.

Le eccezioni anche in questo caso non mancano...

Appare interessante sottolineare che i pochi casi dove il ruolo politico delle donne durante la guerra venne valorizzato nella memoria collettiva e nella storiografia degli anni successivi si concentrarono negli episodi di partecipazione femminile alla causa irredentista, esempi inseribili nel racconto patriottico della “redenzione” del Trentino e dell'Alto Adige che si voleva costruire. Al contrario, quelle vicende della società locale durante la guerra che non si integravano in queste narrazioni vennero per lungo tempo emarginate dalla narrazione, quando non esplicitamente cancellate. Negli ultimi decenni del Novecento, in particolare a partire dagli anni settanta-ottanta, la storiografia si è impegnata nella costruzione di una nuova narrazione storiografica, che superi il racconto patriottico-nazionale della prima metà del Novecento e si concentri sui processi di evoluzione sociale e culturale delle comunità trentine. Questa nuova lettura delle vicende della prima guerra mondiale non ha avuto riflessi solo nella storiografia, ma anche nella lettura che la società ha avuto del conflitto e della propria evoluzione storica. Da questo punto di vista, la riscoperta e lo studio delle vicende connesse alle proteste e all'opposizione popolare alla guerra durante la prima guerra mondiale sul territorio locale costituisce un ulteriore, importante passo all’interno di questo processo che, seppur avviato da diversi decenni, sembrerebbe ancora non completamente metabolizzato da parti della politica e della società, ancora troppo inclini a letture patriottico-nazionaliste.
 

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Liliana Turri Sa., 06.11.2021 - 20:38

Interessante articolo. La proposta di una lettura diversa, non patriottico nazionalista delle vicende della grande guerra, sarebbe magari utile nella nostra regione per togliere dal campo dannose credenze che tuttora disturbano la convivenza. E metterne in luce altre che sono state oscurate.

Sa., 06.11.2021 - 20:38 Permalink