Gesellschaft | L'intervista

La pandemia? "Incentivi anziché divieti"

Giovanni Pascuzzi, neoeletto giudice del Consiglio di Stato, sui rischi della democrazia digitale – e una Regione Trentino Alto Adige che non è più laboratorio.
Giovanni Pascuzzi
Foto: Giovanni Pascuzzi

Ha 62 anni, è professore di diritto privato e diritto digitale all’Università di Trento ed è stato nominato giudice del Consiglio di Stato su proposta del presidente del Consiglio Mario Draghi il 16 novembre 2021. Giovanni Pascuzzi ha scritto numerosi libri, l’ultimo – uscito da poche settimane per Il Mulino – è “La cittadinanza digitale – Competenze, diritti e regole per vivere in rete”. Nel suo autoritratto conclude: “Penso che la felicità sia sapere chi si è e riuscire ad esserlo”.

salto.bz: Se dovesse dettare una breve autobiografia per Wikipedia, che cosa scriverebbe di Giovanni Pascuzzi?

Giovanni Pascuzzi: Nato a Catanzaro il 30 settembre 1959. Vissuto a Bari fino ai trent’anni, e gli ultimi trent’anni a Trento. Ora giudice del Consiglio di Stato a Roma. Un lavoratore del pensiero che cerca di trasformare l’inquietudine in curiosità per la conoscenza.

Da ragazzo del sud a professore universitario al nord a giudice del Consiglio di Stato: se l'aspettava, una carriera così?

Non pensavo che sarebbe accaduto tutto questo. Ma da laureato ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto cambiare lavoro ogni 5 anni. Ho fatto per 10 anni l’avvocato, per 30 il professore universitario, per altri 10 – se Dio vorrà – farò il giudice. L’idea di rimettermi costantemente in gioco l’ho sempre coltivata. E c’è sempre necessità di nuovi stimoli. Per evitare la routine. Perciò avevo presentato la domanda per la Corte di Cassazione. Mi pareva che non avessi più molto da dare all’Università. Che in 30 anni è cambiata molto. In Italia e a Trento. Negli ultimi anni ho vissuto la sensazione di non essere più utile al progetto.

Se dovesse spiegare a un ragazzo di prima liceo a che cosa serve il Consiglio di Stato, come lo direbbe?

Il Consiglio di Stato è un organo che ha due funzioni principali: esprimere pareri su alcuni progetti di legge, funzione sempre più residuale; ma è soprattutto un giudice di appello nelle cause in cui figura la pubblica amministrazione. Tutela il cittadino che si ritiene danneggiato dalla pubblica amministrazione. Sto studiando molto ma sono contento perché comincio a vedere la giustizia da un altro punto di vista, operativo, nel caso concreto. Non è per niente semplice. Si studia da soli e si decide insieme.

La pandemia, con il dilagare dei QR code e dei green pass, ci ha fatti diventare cittadini digitali in modo pieno e irreversibile?

La pandemia ha imposto lo smart working ma chi dice che le persone fossero pronte? Ha imposto la Dad ma studenti e prof erano pronti? Anche la pandemia ci ha fatto capire che le tecnologie digitali ci possono aiutare tanto e ha dimostrato che abbiamo una grande impreparazione per gestire questi strumenti.

Nel suo libro "La cittadinanza digitale" (Il Mulino, 2021) lei spiega bene come le competenze/responsabilità dell'era digitale si possano e si debbano imparare e insegnare. C'è anche l'appello a un radicale ripensamento del sistema della formazione: cominciando da dove, da che cosa?

Ci sono due tipi di formazione necessari. Formazione al digitale e formazione tramite il digitale. Per quanto riguarda la seconda, l’errore che si compie è pensare che si possa riversare l’insegnamento tradizionale nell’on line. Bisogna imparare invece a usare questi strumenti in maniera diversa, per trasmettere vecchi e nuovi contenuti. Sulla formazione al digitale, invece, c’è la legge italiana che ha introdotto un paio d’anni fa, dentro l’educazione civica, l’educazione alla cittadinanza digitale: il rischio è di lasciare i giovani in balia del peggio della rete, bisogna saper prendere ciò che c’è di meglio.

A livello normativo l'Europa e l'Italia come sono messe nell'orizzonte digitale? Che cosa manca ancora?

Qualcosa c’è e si sta facendo. L’Unione europea sta pensando a una dichiarazione solenne dei diritti su Internet, che riconosca il fatto che on line valgono gli stessi diritti che ognuno di noi ha nel mondo reale. Metterà una serie di paletti importanti, perché tanti diritti sono riconosciuti, a cominciare da quello all’accesso, ma non sono concretizzati.

Il digitale e soprattutto i social possono effettivamente dare una voce di cittadinanza ai cosiddetti "outsider connessi"?

Certo. In Italia il partito che ha fatto più leva sul mondo digitale sono i 5 Stelle, ma è un tema anche europeo, come dimostrano i partiti “pirati” del Nord. Che la democrazia sia in crisi per promesse non mantenute, lo scriveva già Bobbio 30 anni fa: questo ha portato alla disaffezione e al calo dei votanti. Gli strumenti digitali, tagliando l’intermediazione, hanno creato effetti positivi ma hanno prodotto anche nuovi problemi per la democrazia.

Il voto elettronico può "salvare" la declinante partecipazione elettorale?

In linea di principio sì, in un piccolo Paese come l’Estonia il voto elettronico è usato in maniera massiva. Ma non è ancora affatto uno strumento sicuro, come dice l’Unione europea: gli algoritmi non sono chiari, sono procedure da studiare e usare con cautela. In un primo tempo, potrebbero servire nelle fasi precedenti al voto: nella discussione delle idee e nella partecipazione preliminare alla fase deliberativa. Prendere dimestichezza e poi ricorrere eventualmente anche al voto elettronico.

Ma è proprio vero che la partecipazione è solo un mezzo e non un fine?

Se io faccio una proposta e do la possibilità di fare proposte alternative e faccio discutere su tutto, questa è forma nobile e genuina di partecipazione. Se invece io ho già preso una decisione e chiamo la base a ratificarla, quello è un plebiscito in cui il leader pone una domanda preconfezionata e si fa acclamare dalla folla. La partecipazione è un valore se la partecipazione è vera. Non basta votare per essere una democrazia, bisogna essere tutti uguali e rimuovere le ingiustizie sociali. La partecipazione è un valore formale, poi ci sono altri valori sostanziali per fare una buona democrazia.

Come si disinnesca il rischio di una digit-democrazia plebiscitaria?

Informare, educare all’uso della tecnologia, a riconoscerne l’uso positivo, a evitarne le trappole. Come per la televisione un tempo.

Dobbiamo rassegnarci all'idea che non troveremo i sistemi per proteggere la nostra privacy in modo effettivo ed efficace?

Cambierà la nozione di riservatezza. La legge non riconosce più un diritto alla riservatezza, semmai un diritto al controllo e verifica su come sono raccolti e utilizzati i nostri dati. La legislazione europea è di avanguardia nel mondo, tanto che Zuckerberg stesso ha chiesto che venga universalmente estesa. Ma la prima difesa viene da noi stessi: non mettere in giro informazioni riservate su cui, una volta in rete, perdiamo il controllo. Ci sono accorgimenti tecnologici che bisogna conoscere.

Lei dedica alcune riflessioni alla "giustizia automatizzata": è un esito inevitabile o è sempre meglio una persona umana che valuta, decide ed eventualmente sbaglia?

Per i prossimi dieci anni me lo auguro, che noi giudici umani possiamo ancora lavorare! Battute a parte, a Shanghai stanno studiando non solo il giudice virtuale ma addirittura un pubblico ministero robotizzato, e la cosa fa paura. Lo scenario non è dietro l’angolo: ciò che le macchine hanno oggi è una potenza di calcolo superiore alla nostra. Che riescano a riprodurre il ragionamento giuridico umano è un po’ difficile. Ci sono però procedimenti automatizzati che già esistono: il Consiglio di Stato ha messo alcuni paletti, dev’essere possibile ripercorrere il percorso logico dell’algoritmo. Il giudice d’appello, insomma, dovrebbe restare “umano”.

Bisognerà pensare a robot con i nostri "valori incorporati": ci si riuscirà?

Difficile dirlo adesso. Si parla di intelligenza artificiale molto spesso a sproposito: ciò che i computer fanno è una mole enorme di operazioni in pochissimo tempo. Non esistono ancora computer con intelligenza generale: magari un computer sa batterci a scacchi, ma non anche fare la spesa, sostenere una discussione e giocare a calcio. Inculcare valori lo si può fare ma se già in questo XXI secolo si arriverà a una vera intelligenza delle macchine, il rischio è che non pensino più agli umani ma solo a se stesse, con loro fini diversi dai nostri perché ci ignoreranno. Come peraltro noi esseri umani ci preoccupiamo poco degli altri esseri viventi.

Ma dall'era digitale è possibile chiamarsi fuori, come in altri tempi gli stiliti del deserto?

Non è possibile e non conviene neppure. Se uno sta dentro ha la possibilità di orientare le evoluzione delle cose, far nascere movimenti di opinione, proporre soluzioni alternative. È vero che ci sono colossi che usano i nostri dati, ma ci sono operatori più piccoli e indipendenti, motori di ricerca meno famosi di Google, che non raccolgono i nostri dati personali. Chiamarsi fuori del tutto ci fa perdere le cose positive: come le partite di calcio viste sul palmare, per dire. Come la telemedicina, se sto male in alta montagna. Gli effetti negativi si possono provare a correggere. Solo se si sta dentro il nuovo mondo.

Avrei articolato meglio gli incentivi, evitando la polarizzazione tra vaccinati e no vax. Sono più favorevole alla spinta gentile, piuttosto che all’obbligo. Qual è poi la sanzione se uno non vuol vaccinarsi? Mandiamo i carabinieri a casa per 5 milioni di persone?

Lo strumento della legislazione d'emergenza in Italia, in questa era pandemica, è stato appunto legittimato dall'emergenza sanitaria?

Io penso che si sia risposto bene nel complesso. Abbiamo rinunciato ad alcune libertà, l’emergenza obiettivamente c’era, non grido allo scandalo per i troppi decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Ma bisogna essere realisti: chi ha deciso di non vaccinarsi ormai non lo farà più. Io sono più favorevole alla spinta gentile, piuttosto che all’obbligo. Qual è poi la sanzione se uno non vuol vaccinarsi? Mandiamo i carabinieri a casa per 5 milioni di persone? La prossima volta proverei ad agire un po’ meglio sulla spinta che poteva non essere solo il green pass, sempre nell’ottica di convincere la persona a fare la cosa giusta, a prendere il vaccino che è l’arma migliore. Avrei articolato meglio gli incentivi evitando la polarizzazione tra vaccinati e no vax.

La democrazia giustamente tutela le minoranze ma le minoranze aggressive possono diventare nocive per la maggioranza: come la mettiamo?

Questa dei no vax non credo possiamo considerarla una minoranza: c’è dentro di tutto, dai neonazisti ai centri sociali. Non stanno insieme per un progetto politico, stanno insieme perché hanno paura del vaccino. Non credo che ne rimarrà nulla, quando l’emergenza finirà. La maggioranza della minoranza no vax non va in piazza. Quindi non li chiamerei una minoranza. Ma farei di tutto per ridurre il più possibile il numero dei non vaccinati che è già molto basso qui in Italia: il lavoro più importante devono farlo i medici di famiglia.

 

 

Che ne pensa della Commissione Dubbio e Precauzione dei suoi colleghi Cacciari, Agamben, Mattei ecc.?

Le voci vanno ascoltate e non criminalizzate. Quando ho sentito l’appello a non comprare i libri di Cacciari, mi sono indignato. Detto questo, possono sostenere argomenti sbagliati. È un movimento in fase sperimentale, aspettiamo l’esito: applico anch’io, con questi professori, un criterio di dubbio e precauzione…

La destatualizzazione del diritto - un altro tema del suo libro - ci porterà più giustizia e libertà?

Gli Stati hanno perso terreno e la rete ha finito per autoregolarsi premiando i poteri più forti, i grandi player, Amazon, Facebook… i primi 5 posti della classifica Forbes al mondo sono tutti occupati dalle multinazionali informatiche. Qualcuno pensa che abbiamo guadagnato libertà ma è vero che ci siamo consegnati a questo strapotere. Gli Stati stanno cercando di recuperare terreno, la dichiarazione solenne dei diritti in Europa va in quella direzione. Bisogna lavorare per evitare che la promessa di libertà della rete si trasformi in potere di pochi. Lo stesso Zuckerberg ha invocato l’intervento degli Stati per arginare i discorsi d’odio e le fake news che li mettono in difficoltà sul tema della responsabilità.

Ho la sensazione che in Trentino Alto Adige il desiderio di fare gli apripista sia svanito, che ci si accontenti di stare nel gruppone dei ciclisti, puntando a un buon piazzamento e niente di più. Invece è fondamentale capire come fare buona innovazione, anche per l’autonomia.

La nostra Regione speciale ha ancora uno spazio specifico e "autonomo", nell'Europa digitale?

Io penso che lo spazio ci possa essere, ma in questi trent’anni ho visto calare la voglia – che avvertivo a fine anni Ottanta inizio Novanta, in Trentino e in Alto Adige-Südtirol – di anticipare il futuro come laboratorio politico istituzionale ma anche tecnologico e sociale. In Trentino-Alto Adige sono state sperimentate nuove politiche e il resto d’Italia ha copiato in senso buono. Oggi ho la sensazione che questo desiderio di fare gli apripista sia svanito, che ci si accontenti di stare nel gruppone dei ciclisti, puntando a un buon piazzamento e niente di più. Invece è fondamentale capire come fare buona innovazione, anche per l’autonomia.

Oblio digitale: quant’è difficile e complicato! Abbiamo costruito un mondo in cui siamo tutti prigionieri di una inestinguibile memoria digitale?

È così. Viviamo un eterno presente che ci rende difficile individuare la prospettiva temporale delle cose. Siamo portati a pensare che gli anni non passino. Abbiamo regole europee che tutelano il diritto all’oblio e spetta anche a noi agire per chiederne il rispetto. Penso soprattutto ai giovani che mettono on line le foto di una bravata in stato di ubriachezza, che tra due o vent’anni potrà essere vista da un potenziale datore di lavoro. Il diritto c’è ma la consapevolezza va educata.

Nel libro lei sembra professare un certo ottimismo sulla possibilità di combinare la cultura Stem (Science Technology Engineering Mathematics) con la cultura umanistica: servirebbero dei nuovi Leonardo da Vinci?

Esattamente, Io spero che passi questo discorso. Il filosofo Galimberti ieri sera in tv ribadiva che questi mezzi impediscono il contatto diretto tra i giovani. Ma io non credo che sia così. Non demonizziamo il telefonino ma troviamo il modo di fornire esempi di uso virtuoso delle tecnologie. Il problema è che gli umanisti – invece di demonizzarle – dovrebbero conoscere bene le tecnologie per favorirne un uso utile e proficuo. Ma ci vuole uno sforzo aggiuntivo. Se c’è qualcuno capace di tenere insieme i due mondi si faccia avanti. Gli umanisti non possono e non devono abdicare.

Professore Pascuzzi, lei è un esempio di costante e diligente attività comunicativa digitale, anche sui social: si dà delle regole, dei limiti, degli orari? Ha un piccolo consiglio per i suoi nipoti nativi digitali a cui è dedicato il libro?

Mi sono dato regole e cerco di rispettarle. Un numero non ampio di amicizie, non arrivo a mille e sono già tanti. Non rincorro contatti. Si sta lì, è già importante parlare a mille persone. E poi non più di un post al giorno e cercare di suscitare un dibattito. Per i nipotini, vorrei invitarli a non essere passivi nella rete, ma provare a creare piccole app per capire che cosa c’è dietro e dentro quel mondo e provare ad addomesticarlo. Non è necessario eppure sapere programmare, ci sono software intuitivi da usare, per maturare quelle competenze oggi così necessarie ad essere cittadini digitali consapevoli e responsabili.

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gorgias Mi., 05.01.2022 - 07:02

Meno domande però più aperte sarebbe stato meglio.

Il qr degli greenpass ci fà citadini digitali? E lo spid, la carta d'identità digitale e pure il codice fiscale cosa ci hanno fatto allora fino ad adesso?

Mi., 05.01.2022 - 07:02 Permalink