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Sotto il mantello dell’invisibilità

“Viviamo in 10 in 46 m², aiutateci a trovare una sistemazione dignitosa”, l’appello di Aref, scappato da Mosul a Bolzano dopo che l’Isis ha massacrato la sua famiglia.
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Foto: Una parte della famiglia Saab

“Gli esseri umani si spostano. Lo hanno sempre fatto e lo faranno sempre. Da anni l’Europa cerca di fermare i migranti, ma non ha mai funzionato. Che ci piaccia o meno, è inevitabile che queste persone continuino a fare rotta verso occidente”, sono le parole di Patrick Kingsley, esperto di migrazioni del Guardian. Un architrave di verità conclamate su cui poggiano migliaia di storie, come quella di Aref Mohammed Saab, un iracheno di 47 anni che nel 2007 ha lasciato il suo paese d’origine cercando in Italia una sponda di libertà dove poter tracciare un futuro per sé e per la sua famiglia.

 

Ultima fermata, Bolzano

Mohammed è stato un militare per 8 anni, poi ha trovato lavoro nel commercio, finché la furia distruttiva dell’Isis non si è abbattuta su Mosul, la città in cui viveva. Aref si ribella all’orrore ed è costretto a scappare dall’Iraq perseguitato dai suoi aguzzini che gli ammazzano la madre e diversi fratelli. Arrivato in Calabria, a Crotone per la precisione, Aref chiede e ottiene l’asilo politico, poi si sposta a Brescia e infine approda a Bolzano. Ha sposato Salma, la vedova di uno dei suoi fratelli morto per un attacco cardiaco dopo essere stato brutalmente picchiato dai miliziani del cosiddetto Stato islamico. Un po’ per volta arrivano nel nostro Paese i 7 figli di lei, il ricongiungimento famigliare va a buon fine. Nel 2011 Salma e Aref mettono al mondo una bambina, Mariam. Sono in dieci, ora, in un appartamento di appena 46 metri quadri, nel centro storico del capoluogo altoatesino.

 

Piove sul bagnato

Qualche settimana fa l’Isis bombarda la casa in cui la famiglia Saab viveva, il nipote di Aref di appena un mese muore nell’esplosione. “Non abbiamo più niente che ci leghi alla nostra terra, siamo venuti in Italia carichi di speranze ma vivere così è difficile, dormiamo tutti in una stanza, per terra, le ragazze non hanno un posto per studiare o anche solo per cambiarsi d’abito, non hanno privacy”, racconta in arabo Aref seduto nel piccolo salotto di casa circondato dai suoi. Le figlie adottive traducono a turno in italiano frase per frase, rapidamente. C’è il problema delle cimici, dice Aref unendo l’indice e il pollice come a voler mostrare un insetto che non c'è, fra le due dita. “La casa ne è infestata, abbiamo coinvolto l’assistenza sociale, la Caritas, la chiesa per trovare una soluzione abitativa dignitosa, ma ci rimbalzano da un ufficio all’altro e la risposta è sempre la stessa: ‘voi trovate la casa, noi poi vi aiutiamo”, spiega il capofamiglia. Più facile a dirsi che a farsi. “Non ho un lavoro, mi è stata riconosciuta l’invalidità al 70%”, dice mentre impila uno sull’altro una serie di incartamenti a conferma di quanto sostiene. Nel referto dell’Azienda sanitaria locale risalente allo scorso luglio si legge che è affetto da una grave patologia pneumologia cronica e da un problema alle ginocchia. Senza contare la presenza del disturbo post-traumatico da stress (“pensiero polarizzato sul timore di ritorsioni da parte dell’Isis e sulle attuali difficoltà socio-economiche”, si legge ancora nel documento dell’Asl), ragione per cui è stato anche portato al Centro salute mentale (CSM).
 

Bashar e i suoi fratelli

In famiglia i figli più grandi aiutano come possono, portando lo stipendio a casa. “Non chiediamo soldi - chiarisce Aref -, la Provincia e l’Azienda Servizi sociali di Bolzano ci aiutano con l’affitto e le spese, anche se vivere in dieci con meno di 1.500 euro al mese è dura, per fortuna i ragazzi ci danno una mano”. “Amiamo Bolzano e vogliamo restarci”, dicono Neamah e Inas, rispettivamente di 15 e 10 anni, “ma quando andiamo a vedere una casa va sempre a finire che non ce la affittano, forse perché siamo stranieri e nostro padre non parla bene la lingua”. Aref annuisce, “sono cresciuti tutti qui - dice indicando i figli con un certo orgoglio - ormai parlano il tedesco e l’italiano meglio dell’arabo”. Wasan, 13 anni, gioca a calcio nella squadra femminile del FC Südtirol, Yasir, 18 anni, nella Virtus Don Bosco. Si sono ambientati senza particolari problemi. Ma non per tutti è stato così. Uno dei fratelli, il sedicenne Bashar, ha riportato “gravi traumi nel suo paese e nonostante la costante presenza responsabile della madre e dello zio manifesta un forte disagio che lo ha portato a commettere violazioni contro la legge penale. […] Il ragazzo si è più volte allontanato da casa, dormendo fuori. Ha numerose assenze a scuola e ha ammesso di assumere spesso sostanze alcoliche […]”, si legge in un documento rilasciato un anno fa dal Tribunale dei minorenni di Bolzano.

"L’Europa è terra di libertà e democrazia, ci dicono, quali problemi potrete mai avere? Non sanno che ricominciare da capo in un paese che non si fida di te fa paura"

Diversi erano stati, inoltre, gli episodi segnalati in cui il ragazzo aveva aggredito o minacciato dei coetanei. A quel punto, data la situazione e i mancati progressi nell’apprendimento scolastico, il Tribunale aveva disposto il suo affido al servizio sociale per un “idoneo collocamento etero-familiare per 24 mesi”. Ma la vita in comunità per Bashar non funziona, e così il prossimo 7 marzo è stata fissata una nuova udienza. I giudici, all’epoca, avevano incaricato lo stesso servizio sociale, oltre che di avviare immediatamente la valutazione psico-diagnostica del giovane, anche di sostenere il nucleo famigliare nella ricerca di un alloggio più adeguato. Ma finora nulla si è mosso. Un immobilismo che è spesso destino comune di molti degli “invisibili”, richiedenti asilo e rifugiati, presenti sul territorio altoatesino. “Ho paura che come Bashar anche gli altri miei figli, dopo tutto quello che hanno già passato, possano subire delle ripercussioni psicologiche, e certamente questa situazione non ci aiuta, non pretendiamo di abitare a Bolzano ma vogliamo rimanere in Alto Adige, abbiamo bisogno di una casa che sia degna di questo nome, aiutateci a trovarla”, è l’appello di Salma, la madre dei ragazzi e di Aref, “molti nostri connazionali, in Iraq, non capiscono in quali condizioni sta vivendo la nostra famiglia, l’Europa è terra di libertà e democrazia, ci dicono, quali problemi potrete mai avere? Non sanno che ricominciare da capo in un paese che non si fida di te fa paura”.