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L’arte è un’isola?

Tre artisti in mostra a Kunst Meran/o Arte: Katinka Bock (Germania), Philipp Messner (Alto Adige) e Giulia Cenci (Toscana)
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Foto: Kunst Meran/o Arte

A guardare certi sassi sulle spiagge ci si può perdere, si scoprono mondi interi. Lo sapeva anche Bruno Munari che ha dedicato un volume ai “suoi” sassi trovati in giro per le coste intitolandolo Da lontano era un’isola. Titolo che Christiane Rekade, curatrice presso Kunst Meran/o Arte, ha preso in prestito per la sua recente creazione, la bella mostra che si dispiega nell’edificio intero del Museo di arte contemporanea sotto i portici in pieno centro e che presenta tre artisti: Katinka Bock, Philipp Messner e Giulia Cenci. Abbiamo detto “intero” edificio non a caso, perché già la prima artista che “abita” il primo piano con le sue opere, Katinka Bock, per la prima volta include il dentro e il fuori di questa ex casa dalla ricca storia antica (fu costruita nel Milletrecento circa sotto l’allora conte di Tirolo Mainardo II, come tutte le altre facenti parte dei due porticati che si appoggiano vicendevolmente ai monti o al fiume, assumendone i nomi in tedesco, ossia Berglauben e Wasserlauben). Già nella hall lo sguardo viene invitato a rivolgersi verso l’alto soffitto, lungo alcune asticelle bianche che pendono da un gancio, dal quale a sua volta passa un filo azzurro verso la parete adiacente, pari a quei fili elettrici che un tempo passavano dalla parete al centro del soffitto per portare l’elettricità alla lampadina che dovette illuminare l’ambiente.

 

Al primo piano, sul pianerottolo, poi, sbuca un tubo in rame luccicante da una delle finestre che finisce poco sopra il lavabo attaccato al muro, come testimone del tempo che fu, e che gli architetti che avevano curato il restauro per trasformare la casa in spazio adatto per una galleria d’arte lasciarono attivo, nel senso che tuttora copre le proprie funzioni di spendere il prezioso liquido blu a chi apre il rubinetto. Katinka Bock fa un passo oltre, o meglio, indietro nel tempo: il suo tubo collega questo lavabo (anticamente unica fonte di acqua dentro casa) con un imbuto-grondaia giustapposto sotto il balcone del piano di sopra che si affaccia su via Cassa di Risparmio onde raccogliere l’acqua piovana, come ancora oggi accade nelle case del sud del mondo, per condurla nel lavabo. Con questo suo April, personne l’artista rompe nel vero senso della parola con le abitudini espositive, avendo fatto rompere quella continuità delle pareti bianche sulle quali solitamente sono appese le opere oppure che fanno da cornice per un mondo immaginario illuminato da luci artificiali: lei fa entrare la luce del giorno, lei fa entrare le silhouette delle case vicine, il cielo, il sole o le nubi. Non a caso, forse, nella stessa stanza in cui avviene questo nesso come fulcro tra mondo reale e rappresentazione fittizia, si trova anche la sua copia del muro di cactus ideato dal pittore e architetto Juan O’Gorman per proteggere le due case gemelle di Diego Rivera e Frida Kahlo a Città del Messico da sguardi curiosi lasciando però al contempo lo spazio sufficiente tra una pianta grassa e l’altra per guardare fuori e dentro quelle case da lui stesso ideate negli anni trenta del Novecento. Si chiama Smog la fila di cactus, in parte realizzati nel 2018 nella capitale del paese sudamericano, essendo che la loro superficie color grigio-fumo ricorda quella fitta coltre che fa quasi scomparire la megapoli in una nuvola di foschia.

 

Piante reali e rappresentazioni floreali, l’artista originaria di Francoforte che vive a Parigi, ama compiere sintesi sorprendenti: per ottenerne copie esatte getta il bronzo anche direttamente sulla pianta ai fini di r/accoglierne il risultato, ossia ciò che ne esce con tutti i dettagli favorevoli e sfavorevoli determinati dalle piante stesse, che siano foglie o rami con germogli e/o fiori. Affascinante in questo senso la dirompente sintesi astratto-realistica di un limone, Popolazione (righe e retta), limoni, dove alcune foglie in bronzo appese sull’asticella, sempre in bronzo, che pende dal soffitto come un ramo, fungono da specchio a mo’ di quello di Alice nel paese delle meraviglie per riprodurre dall’altro lato (in 3D!) un paio di limoni veri, freschi e gialli, fissati sulla stessa asticella. Un “vero” terremoto sensual-percettivo! Anzi, un détournement della visione e dell’effetto visivo. Altra associazione da brivido c’è in Popolazione (righe e retta) S. Erasmo, dove la parte con radici di un albero poggia su una bottiglia di plastica sdraiata piena di acqua, di mare, proveniente dalla spiaggia del titolo dell’opera, dove è vietato fare il bagno essendo troppo inquinata.

 

Al secondo piano c’è il giovane alto-atesino che vive a Monaco, Philipp Messner, ad aver sperimentato a suo modo: lastre di marmo collidono per restituire forme tridimensionali e colorate affinché ognuno possa costruirsi mentalmente la propria scultura girandoci attorno. “Sono contenta che i tre artisti abbiano lavorato tutti site specific confrontandosi in modo estremo e intenso con lo spazio della galleria, creando ognuno e ognuna opere apposite, e lo stesso Messner ha creato ex novo i suoi marmi, un vero e proprio esperimento per lui”, ci racconta Rekade al telefono. Alla domanda come mai avesse ripreso il titolo del libro di Munari per la mostra, precisa che la citazione riportata nell’introduzione al catalogo, anzi ai tre cataloghini (in vendita presso Merano Arte, uno per ogni artista), e che dice che “il sasso che sembra un’isola, senza le nuvole e il mare” oppure che “può sembrare il fianco di una montagna (…) e in uno dei sentieri che portano alla vetta si vede (se uno vuole) una comitiva di turisti svizzeri uno dei quali è a piedi nudi (incredibile!)”, lei ce l’aveva in testa da parecchio tempo. Poi è arrivato il momento di usarla, visto che “come Munari vede un mondo, così ognuno di questi tre artisti crea il suo proprio oltre a una sorta di prospettiva personale”. Decisiva per unire Bock, Messner e Cenci è infine stata l’idea di voler usare l’intera struttura architettonica suddividendola per piani, con un artista a piano, ci dice svelando il punto di partenza e trattandosi di artisti che lavorano nel campo della scultura, quindi con materia e spazio, il filo di unione con la citazione di Munari non era lontano in una esposizione dove queste sculture oltre a dialogare con lo spazio attorno si fanno (anche) installazioni.

Giulia Cenci si ispira a film visionari come Solaris del geniale regista russo, Andrej Tarkovskij - la risposta dell’est al mitico 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick

E non, vien da dire, visto che ogni opera esiste di per sé e con le altre, dentro lo spazio e con quello attorno, in relazione a chi la guarda e con chi guarda. Così le forme animal-grottesche inventate da Giulia Cenci, classe 1988, creano nella prima sala dotata di moquette nera un fondale sottomarino popolato da strani esseri, tipo cammello senza testa, tipo capra solo anca o teste senza corpi. Rekade nel suo testo critico li cita come “chimere”, al pari della creatura della mitologia greca rappresentata nel celebre bronzo di Arezzo: emblema di ibridazione con corpo e testa di leone, schiena a forma di testa di capra e coda di serpente. A detta della curatrice, Cenci si ispira a film visionari come Solaris del geniale regista russo, Andrej Tarkovskij - la risposta dell’est al mitico 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick - in cui si indaga il mondo futuribile come un ipotetico mondo interiore, mentre in entrambi si materializzano estasi e paura dell’evoluzione tecnologica. In questo fascinoso marine snow (scuro-scuro) Giulia Cenci, con schiuma di poliuretano, alluminio e ferro ha generato inoltre creature simil-marine dotate di colore blu prussiano e ultramarino in modo da rimandare a quei sassi concavi, in cui nei periodi di bassa marea si formano piccole rimanenze di acqua marina. Per guardare questa opera bisogna muoversi al suo interno, calzando calzini di plastica azzurra (non sarà casuale il colore usato?), camminare con passo felpato che suscita l’impressione di nuotarci in mezzo, a questo mare di “horror vacui”. Si sbuca nella sala successiva, egualmente dotata di moquette nera, e l’immersione percettiva continua: ora bisogna schivare a destra e a sinistra le creature sospese a mezz’aria, pendenti dal soffitto con fili sottili, dotati di spilloni laterali come spiedi giganteschi con molluschi e forme astratte animal-umane in attesa di un non so che. White noise (scuro-scuro) l’ha chiamata colei che vive nella città sull’acqua del nord, Amsterdam, chissà a quali rumori bianchi si riferisce? Un rumore bianco rimanda all’energia atomica, grande pericolo in agguato, silente, invisibile. E qui la poetica di Cenci si riaggancia con quella di Katinka Bock, che nelle sue sculture fumose e mortoree rimanda alla contaminazione della natura.

 

Quali mondi ci mostrano queste loro isole? Quale isola ci vuole indicare Christiane Rekade nella sua poetica visione da curatrice di mostre d’arte? Ogni sasso sembra un’isola, diceva Munari, ogni artista crea un’isola, dice Rekade e ce ne propone tre di isole, isole che nel loro relazionarsi non sono più isole isolate, ma vanno a creare quella meravigliosa terra in cui tutto è possibile, l’arte.