Gesellschaft | Anno scolastico

Sconsigliato entrare al Kindergarten?

Appunti di una mamma a seguito della riunione prima dell’inizio della scuola dell’infanzia.
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Kindergarten
Foto: Pixabay

E’ settembre e riaprono le scuole. Tutto pronto: ciabattine comprate, zainetto lavato, nuova borraccia e la stessa titubanza e incertezza degli ultimi due anni. Cosa accadrà in autunno? Quest’anno pare essere un anno diverso, o perlomeno più normale degli scorsi due:

E’ di qualche giorno fa la notizia, a caratteri cubitali, della riapertura delle scuole senza più alcuna restrizione per il covid. Niente mascherine, basta entrate scaglionate, via libera ai genitori di entrare e uscire dalla scuola per accompagnare i piccoli ed andarli a prendere. Assembratevi, pure, insomma: covid ti conosciamo un po’ ormai e speriamo di avere le armi per combatterti ritornando a quello che facevamo prima. O meglio, a come lo facevamo.

Ho due figli piccoli, uno alla scuola dell’infanzia, l’altra all’asilo nido. “Finalmente!” mi sono detta, immaginando innanzitutto la faccia stramba che avrebbe fatto mia figlia nel vedere le sue maestre senza mascherina. Addio video dell’asilo caricati sulla piattaforma weschool, di cui avevo anche rimosso le credenziali e dovuto cancellare l’app dal cellulare perché mi occupava troppa memoria. Quei luoghi li avrei potuti vedere finalmente di persona e non solo in foto. E’ il 2022 e quell’agognato e tanto atteso momento delle riaperture è finalmente arrivato, mi sono detta.

Un po’ emozionata mi è venuto in mente il discorso strappalacrime della coordinatrice dell’asilo, all’alba di quell’incerto settembre 2020 dove ci muovevamo insicuri e ignari di come questa pandemia avrebbe portato terremoti sociali ed emotivi e scosso le nostre vite. La coordinatrice ci implorava perdono, ci ringraziava allargando le mani come a trovarsi di fronte a figure divine. In fin dei conti eravamo solo dei poveri genitori alla loro prima esperienza di scuola dell’infanzia, rimbambiti innanzitutto dai gruppi whatsapp, dalle notizie sul covid, dalle notti insonni. Ma lì ci sentimmo qualcosa in più: venivamo trattati come delle entità a cui veniva chiesto perdono in ginocchio, poichè di lì a poco ci avrebbero negato quello che dalla stessa istituzione ci veniva presentato come un pilastro, un imprescindibile presupposto di esistenza della scuola dell’infanzia: il nostro esserci, il far parte della scuola. Non solo con lo spirito e con la mente, ma con i piedi, le mani, gli occhi. Il diritto ad accompagnare i/le bambini/e nei “locali della scuola”, come si usa dire utilizzando un gergo un po’ troppo catastale e che non si addice veramente a quel contenitore di colori, profumi e rumori, e non solo di calcestruzzo, che è una scuola dell’infanzia. Insomma, vorrebbe dire entrare nella scuola seppur per pochi, concitati istanti e scalini. Quelli necessari a raggiungere la sezione, la maestra e gli atri compagni magari già in piena attività di gioco. Il percepire l’atmosfera frizzante e frignante dei/lle bambini/e a prima mattina, incrociare con lo sguardo le educatrici e vederle muoversi tra le prime attività del mattino. Far sentire loro una certa solidarietà, d’altronde alle maestre d’asilo andrebbe un premio a prescindere, per l’importanza e la delicatezza del loro lavoro, sempre così sfidante dell’umana pazienza.

In quegli istanti, in cui salirei le scale colorate della scuola, magari starei già pensando alle prime email di lavoro ma distrattamente percepirei il mondo meraviglioso che è attorno a me: un saluto entusiasta di un bambino, la battuta di una cuoca che millanta una pizza squisita prevista per pranzo, fioccherebbero frasi fatte, stupide, che pronunciamo troppo spesso noi adulti (tipo: “sì, ma la pizza è solo per i bimbi buoni!”) oppure calpesterei per sbaglio un acquerello caduto da una parete e vedendoci una nave dipinta ripenserei alle vacanze o semplicemente mi rammaricherei di non aver ancora ricomprato gli acquerelli finiti da un mese. O magari incontrerei una bambina che preferirebbe rimanere con la sua mamma. Le farei un sorriso, solleciterei un gesto di solidarietà dal mio che magari ostenterebbe sicurezza e proverebbe a farmi lo sgambetto dissacrando le mie buone intenzioni.

Un tuffo intenso, brevissimo, colorato, nell’infanzia e nel loro mondo. Di tutti i giorni.

Poi la giornata lavorativa comincerebbe e il tran-tran quotidiano adulto mi travolgerebbe senza sconti, ma quell’acquerello sarebbe rimasto da qualche parte dentro di me, magari nella mia ricerca su spotify mentre sono in ufficio, di quella canzone catturata su shazaam quando ero in nave. Si farebbero le 15 circa, momento di andare a prendere la creatura all’asilo. Di nuovo qualche punto sulla lista dei to-do, un messaggio al volo, una controllatina al calendario e via. Mi catapulterei all’ingresso, come al solito in ritardo. Salirei verso la sezione stavolta facendo le scale a 4 a 4 e vedrei che mio figlio è del tutto immerso in una discussione – sicuramente esilarante – con altri bambini che hanno in mano delle macchinine. (Mi rendo conto che ho dovuto faticare ad immaginarmi concretamente con cosa giochi all’asilo, perché effettivamente non l’ho mai visto).

Metteremmo la giacca al volo, darei una controllatina alle pantofole: “massì, il piede ci sta benino ancora un altro mese”. Saluterei la maestra, attenderei con lo sguardo eventuali informazioni importanti. Di solito riguardano se e quante volte è caduto, se ci sono stati incidenti di percorso. Mi piacerebbe a volte sapere con chi ride, cosa lo ha fatto particolarmente felice. La pizza, mi rispondo. Di solito risponde così quando glielo chiedo.

E poi si andrebbe a casa o al parco o da un amico o a prendere la sorella. Ma nel tragitto gli farei qualche domanda su quello che il mio occhio di striscio avrebbe incrociato andandolo a prendere. “Ah, ho visto che stavi giocando con Lisa, allora è tornata dalla vacanza dai nonni!” “Sì, sai che i suoi nonni hanno due cani enormi?” “Caspita!” “Ne voglio anche io uno!” “Non se ne parla proprio..”. Potrei avere una conversazione simile. Avrei un appiglio concreto per farmi raccontare qualcosa, avrei un’immagine di vita reale da cui partire. E lui potrebbe partire più concretamente da qualche banalissimo dettaglio per arrivare a parlare del suo ultimo disegno: “mamma, hai visto come sono piccoli i bagni del mio asilo?” No..non sono andata in bagno nel tuo asilo, stavo solo vedendo i disegni attaccati sulla parete accanto e ho visto anche il tuo”.

Ebbene, nel decantare le lodi di questo diritto ad esserci nella scuola dell’infanzia (che in gergo burocratico garantirebbe, cito, tra le altre cose: la continuità pedagogica tra istituzione scuola e la famiglia, una comunicazione diretta con la famiglia, la fiducia della famiglia e dei/lle bambini/e nell’istituzione) la coordinatrice ci diceva immediatamente che avremmo dovuto, almeno per il momento, dimenticarlo. Le norme nazionali imponevano, infatti, un rigore assoluto per prevenire la diffusione della malattia covid19. Comprensibile, vista la situazione che vivevamo.

“Vi ringrazio, cari genitori, per la fiducia estrema che riponete nella nostra scuola dell’infanzia”; “Vi ringrazio per il vostro coraggio, per mandare i vostri bambini alla cieca“ (No, aspetta, alla cieca proprio no, spero tanto che le maestre siano nelle loro piene facoltà così come chi lo gestisce, i cuochi e tutti coloro che il mio bambino e la mia bambina avranno l’onore e l’occasione di incontrare). Mi sentii un’eroina. Che in tempi di guerra si morde il labbro ma prende la decisione giusta. Il fatto che ci venisse riconosciuta importanza, ovviamente, ci inorgoglì e ci rese anche meno traumatico l’invio di nostro figlio di neanche 3 anni in un luogo sconosciuto, molto grande e con persone del tutto nuove, per almeno 6 ore al giorno. Senza che mamma e papà avessero mai messo piede neanche nell’ingresso.

La riunione in cui venne proclamato questo solenne patto di riconoscenza alla nostra infinita benevolenza e comprensione venne fatta nel cortile della scuola, rigorosamente all’impiedi, senza sedie né altro, ma probabilmente non ce ne rendemmo neanche conto. Quando i tempi magri chiamano, ci si dimentica facilmente anche delle comodità.

Ma ritorniamo ad oggi. Ci siamo, oggi tutto quello che ho scritto rigorosamente al condizionale, poiché non l’ho ancora mai vissuto, potremo finalmente viverlo!

Eppure..

Alla riunione del 2 settembre 2022, quella stessa coordinatrice che sembrava aver fatto quel patto di sangue con noi nel 2020, che mi ero immaginata aver stappato bottiglie di spumante alla lettura del venir meno delle restrizioni, proprio lei, ci comunicava, dandoci un grigio foglio A4, quanto segue: “Entrata: i bambini vengono accolti all’ingresso dalle educatrici, che li accompagnano in sezione. Uscita: i bambini vengono accompagnati alla porta dalle educatrici”.

Distrattamente la mia attenzione selettiva si era soffermata su una formalità: la totale assenza di genderizzazione. Poi mi do una scrollatina, come a dire “sì, ma ora concentrati sul contenuto”. E lì non riuscivo a credere a quello che leggevo. Sul serio?

Non solo stava infrangendo l’attuale tendenza di tutte le altre scuole dell’infanzia a me conosciute. Ma stava strappando, riducendolo in mille pezzi, quel patto di sangue stretto prima che la pandemia ci travolgesse e ci facesse abituare a privilegiare la distanza alla vicinanza.

Alla riunione, fatta in toni ben diversi da quella del 2020, in cui la coordinatrice si prodigava a spiegare la bontà di questa scelta in controtendenza, si sentivano solo concetti quali “la consegna” dei bambini, “l’autonomia del bambino che verrebbe frustrata se fosse la mamma o il papà ad accompagnarlo in sezione”; “l’esperienza del covid ci ha insegnato che farli fare da soli è meglio”; “così si preparano al meglio alle scuole elementari” (come se un iscritto al primo anno di università cominciasse già a scrivere la tesi, così, per soffrire prima del dovuto); “il covid ci ha portato anche cose buone, tra le quali una migliore pedagogia verso i bambini”: in sostanza, più i bambini sono senza genitori e meglio è. Poi l’asterisco in caratteri minuscoli, neanche scritto, solo a voce: “ovviamente chi vuole entrare può farlo, non posso vietarglielo, ma pedagogicamente è sconsigliato”.

A questo gli astanti genitori annuivano, soddisfatti. Come a dire: proprio vero, il covid non ha portato solo cose cattive e così finalmente il mio bambino imparerà a togliersi le scarpe da solo e non dovrò farlo io che strepito per andare a lavorare. Solo qualche altro intervento, stizzito, ma sempre in quella direzione, di chi si augurava una maggiore puntualità delle educatrici nel “prelevare” i bambini all’ingresso, poiché il cartellino da timbrare non può aspettare o semplicemente non si può stare lì davanti alla scuola ad aspettare quei 5 minuti, no, il capitalismo ha troppo bisogno di noi. Un’unica voce contraria, sopraffatta, distrutta, incredula: la mia.