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Morte (e resurrezione?)...

...di un commesso viaggiatore. Trascinante messinscena dello storico testo di Arthur Miller a cura dello Stabile del Veneto e quello di Bolzano.
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Foto: Azzurra Primavera

Dal manifesto troneggia lui, Alessandro Haber, nel ruolo protagonista dello spettacolo portato in giro dal Teatro Stabile del Veneto Morte di un commesso viaggiatore per la regia di Leo Muscato. Per suo buon diritto, visto che l’attore bolognese tiene la scena per quasi tutti i 160 minuti di spettacolo incarnando a tutto tondo quel Willy Loman ideato da Arthur Miller due anni dopo la nascita dello stesso Haber, nel 1949. Il drammaturgo statunitense aveva voluto dipingere il grande sogno americano in questa pièce con cui nello stesso anno vinse il Premio Pulitzer, quel sogno di grandezza, di voler essere i primi, i migliori, i più grandi nel mondo, e che perdura fino a oggi (il trumpismo ne è la prova più che mai eloquente), non solo all’interno della società americana.

 

Questa coproduzione del Teatro Stabile di Bolzano con il già citato Veneto e la Goldenart Production nei prossimi giorni è a Trento, per poi tornare in Alto Adige a Brunico (il 9) e a Bressanone (il 10 marzo), ma è anche una produzione di lunga durata, nel senso che farà un tour per ben tre stagioni. E ne vale la pena, essendo un bene che tante persone lo vedano, non solo per le incisive parole del testo, ma soprattutto per l’intensità della recitazione della coppia Haber e Alvia Reale, lei che interpreta con garbo e rigore la moglie Linda, donna al contempo dolce e dura, allegra e tristissima, nonché per il crescendo di tensione cui si assiste nel corso dell’evoluzione della storia. Una storia che si potrebbe dire una storia qualunque di oggi.


Quante volte si è letto sul giornale: licenziato, ha fatto finta di continuare ad andare a lavorare, per vergogna di fronte a parenti e amici, per poi porre fine alla propria vita? Si potrebbe ridurre a queste due righe il plot del capolavoro di Miller che ha visto una decina di versioni cinematografiche (la prima di Laszlo Benedek era anche candidata a numerosi Oscar nel 1951, mentre la più nota è quella con Dustin Hoffman nel ruolo di Loman per la regia di Volker Schlöndorff del 1985), e che ha trionfato tantissime volte sui palcoscenici in giro per il mondo. Mietendo grandi successi. Perché? Dove sta il genio del testo, o è della regia, o degli attori?


Innanzitutto, Miller è riuscito in quello che lui definisce “dramma in due atti e un requiem” a esprimere una delle caratteristiche insite nel cittadino medio americano di voler essere senza riuscire a esserlo veramente, quel mirare in alto quando si sa di non saper volare, quel rimanere attaccati ai valori senza mai voler ammettere né a se stessi e tanto meno agli altri di quanto in fondo, forse, si è “soltanto un essere umano”. Willy Loman voleva essere qualcuno, voleva sembrare qualcun altro, era il sognatore e l’interprete di quel suo sogno, anzi, lui voleva che tutti attorno a lui facessero egualmente parte di quel suo stesso sogno. Che però si era già infranto. Morte di un commesso viaggiatore per certi versi rispecchia (anche) la società italiana nata negli anni ottanta, con quel sogno dell’apparire, gli yuppies, la produttività e l’immagine innanzitutto, quel non importa “chi sei” ma “cosa hai fatto o prodotto”, oppure “dove sei arrivato sulla scala social-capitalista”.  

 

Le scene create da Andrea Belli rispecchiano bene questa decadenza, dove una porzione di casa dalle mura grosse, mezze disfatte, coi mattoni a vista, mobili per gli assai veloci cambi di scena, funge da interno e/o da esterno, da cucina o da ufficio, luogo delle varie scene madri che in uno snocciolarsi a mo’ di montaggio cinematografico sfilano l’intera matassa, anche grazie al notevole aiuto delle luci disegnate con sapienza da Alessandro Verazzi che permettono di tuffare noi spettatori nelle stesse visioni del nostro protagonista sulla scena: una partita a carte all’aperto di notte col vicino di casa, dove Willy confonde le carte con i ricordi del fratello partito, e quel fratello Ben appare all’esterno dell’altro lato della casa, illuminato da un tondo di luce giallastra; luci arancioni sul retro della porta-finestra sullo sfondo del vano immaginario significano ambiente di lavoro in coppia con l’anticamera coi toni giallo-freddi, ambiente di casa con i toni giallo-caldi…


Un telone trasparente che scende dall’alto rappresenta una silhouette in bianco e nero di una skyline newyorkese tipica del secondo dopoguerra e va a significare lo scenario sulla terrazza di un ristorante elegante. Complice è naturalmente anche la musica che non manca di effetti sonori, curata da Daniele D’Angelo, per immergerci sempre di più in quell’ambiente dove passato e presente convivono di continuo e ci vengono segnalati dal cambio di costumi (di Silvia Aymonino) soprattutto dei due figli (interpretati da Alberto Onofrietti e Michele Venitucci), Happy e Biff, donnaiolo il primo, eterno perdente il secondo. Sta qui un’altra critica dell’autore Arthur Miller alla società americana (e quindi qui alla nostra) che ha educato i suoi figli addossando a loro aspettative esagerate e sogni senza fine, creando figure vuote, simulacri di se stessi da riempire con tutto il meglio o il peggio possibile, mancando di dar loro in mano strumenti per crescere davvero e contribuire a una evoluzione in tutti i sensi, sul piano sociale, politico, economico e umano, vien da dire.


Lasciano una speranza, però, Miller/Loman/Haber/Reale, nel requiem finale: quella frase detta con gioia, quasi, che ora lei e lui erano liberi, liberi da tutte le costrizioni di una vita vissuta secondo i dettami di qualcun altro.