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“Vi racconto le Terre dei fuochi”

Il fotografo Stefano Schirato a Bolzano con il progetto Terra mala sui veleni in Campania. I tumori, gli abitanti resilienti che non fuggono, l’Ilva e il bresciano.
Stefano Schirato
Foto: Stefano Schirato

“In questo lavoro, Terra mala, racconto le aree inquinante dai depositi di rifiuti tossici tra Napoli e Caserta, ma anche le eccezionali storie di resilienza degli abitanti della zona, che nonostante abbiano avuto figli morti di tumore hanno deciso di restare. Per cambiare le cose. Purtroppo, in Italia non ce n’è solo una, sono molte le Terre dei fuochi: a Taranto, vicino all’Ilva, si continua a morire, e poi a nord c’è il bresciano, una delle zone più inquinate”. Stefano Schirato, fotografo di Pescara, nel curriculum i reportage sulla rotta balcanica dei migranti, da Lesbo all’Austria, e le collaborazioni con il New York Times, Le Monde e altre testate nazionali, è passato da Bolzano. Per illustrare a Centro Trevi, su invito del circolo fotografico Tina Modotti, il progetto di immagini e parole - una mostra diventata libro - che l’ha occupato a partire dal 2015. Dopo il lavoro nel 2011 nella zona rossa attorno alla centrale nucleare di Chernobyl, finito sul NYTimes, e un’esperienza sullo sfondo dell’Ilva, Schirato ha infatti deciso di andare conoscere gli abitanti della Terra dei fuochi. Gli eroi, come li chiama lui.

In Terra mala racconto le aree inquinante dai depositi di rifiuti tossici tra Napoli e Caserta, ma anche le eccezionali storie di resilienza degli abitanti della zona. Sono degli eroi

salto.bz: Schirato,  qual è il percorso che l’ha portata ad occuparsi di territori inquinati?

Stefano Schirato: Ho 45 anni e sono di Pescara. Pur essendo basato nella città abruzzese, avendo tre figli e una moglie, mi muovo tantissimo. Due volte l’anno faccio un lavoro lungo che spesso mi porta via all’estero anche un mese. Poi normalmente mi sposto molto tra Roma, Milano e Napoli e nella mia seconda vita insegno fotogiornalismo e storytelling ai Magazzini fotografici a Napoli. Un’altra bella esperienza. Alla fotografia mi dedico da da vent’anni, principalmente riguardo a temi sociali. Migrazioni, crisi dei rifugiati e diritti umani da una parte, dall’altra l’inquinamento e le malattie legate alla contaminazione ambientale sono le tematiche che ho portato avanti negli ultimi anni. 

 

 

Dove l’hanno portata nello specifico questi progetti?​

Riguardo alle migrazioni, ho seguito tutta la rotta balcanica da Lesbo fino all’Austria, per due anni, e ho collaborato con la Caritas italiana che mi ha finanziato una parte del progetto. Un lavoro in seguito esposto in tutta Italia e finito alla Camera dei deputati, grazie all’interessamento dell’allora presidente Laura Boldrini che vide la mia mostra a Pozzallo e volle portarla a Montecitorio. Un passo prima, nel 2011, in occasione del 25esimo anniversario del disastro nucleare di Chernobyl, sono stato in Ucraina nella zona rossa, dentro la città abbandonata di Pripyat, e questo lavoro mi fu preso dal New York Times che mi mandò un contratto di collaborazione dall’Italia. Oggi collaboro anche per il Repubblica, Espresso, Vanity Fair, all’estero Le Monde, Washington Post, Al Jazeera, Cnn.

A Terra mala sono arrivato dopo il lavoro sulla zona rossa di Chernobyl e quello sull’Ilva di Taranto. Volevo raccontare l’inquinamento e le malattie che provoca alle persone. Ma all’inizio avevo deciso di non farlo: mancava un’immagine forte

Come si arriva a Terra Mala?

Per il progetto dedicato alla Terra dei fuochi, tra le province di Napoli e Caserta, malgrado sia effettivamente iniziato nel 2014, fu il 2011 l’anno di svolta. In quel periodo infatti oltre a Chernobyl avevo iniziato a un servizio per Vanity Fair sull’Ilva di Taranto. Lì ho capito che mi interessava moltissimo la questione dell’inquinamento e le storie delle persone che a causa di questo inquinamento si ammalano. Alcuni amici napoletani che avevano visto la mostra su Chernobyl mi avevano chiesto: perché non fai un lavoro sulla Terra dei fuochi, visto che c’è uno scandalo italiano? Io ne sapevo come più o meno come tutti. Dopo un primo sopralluogo tuttavia avevo deciso di non proseguire.

 

 

Cos’è successo?

Sono andato due volte nei pressi di Giugliano, una delle zone più toccate dagli sversamenti di rifiuti tossici, rifiuti industriali provenienti anche delle aziende del nord e sotterrati a opera della criminalità organizzata, per rendermi conto di persona della situazione. Ma ho constatato che non si vede tantissimo, al di là della spazzatura che si vede anche altrove, a Roma o in altre città. Le sostanze inquinanti sono sottoterra, i rifiuti pericolosi insomma non si vedono. Da un punto di vista fotografico avevo bisogno di mostrare qualcosa. 

Di qui la scelta di rinunciare.

Sì. Davanti a me c’erano colline di erba, dove avrebbe dovuto esserci solo pianura, seppure con sotto l’ira di Dio, ma da fotografo avevo bisogno di far vedere la situazione. Per questo ero rimasto abbastanza freddo sull’argomento.

Poi ho cambiato idea. Don Patriciello, il prete anti-camorra della zona vicino a Napoli, mi ha fatto conoscere Marzia Caccioppoli, madre di un bambino di 8 anni ucciso da un tumore. Come lei tanti genitori hanno perso i figli, anche di 22 mesi

Perché ha cambiato idea?​

Due anni dopo ho conosciuto don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo al Parco Verde in Caivano. È un po’ il prete anti-camorra di quelle zone, portabandiera della lotta degli abitanti contro l’inquinamento. Persona carismatica, trascinatrice, che ha perso due fratelli di cancro ed è stato più volte minacciato dalla criminalità organizzata. L’ho incontrato in Abruzzo perché venne a Vasto a parlare della Terra dei fuochi. Alla fine dell’incontro mi sono avvicinato e gli ho chiesto con quale chiave potevo accostarmi per un lavoro fotografico sul quel territorio. Lui mi diede il numero di telefono di una donna, Marzia Caccioppoli, che poi sarebbe diventata una delle mie migliori amiche. È una mamma che ha perso il figlio di cancro a otto anni ed è divenuta presidente di un’associazione dei genitori che hanno perso i figli piccoli, dai 22 mesi ai 12-13 anni. Ce ne sono una marea con i figli portati via da un tumore. 

Gli incontri con le persone sono state la chiave di volta del progetto?​

Esatto. Piano piano, da situazione a situazione, da persona a persona sono entrato nei gangli di questa problematica, lavorando non solo sulla situazione del territorio stuprato, quanto più delle persone che lo abitano. Coloro che combattono e che lottano perché hanno subito delle violenze, un po’ perché si sono ammalati, un po’ perché hanno visto morire i loro cari, o perché sono attivisti. È il filo conduttore che mi ha portato in giro per quattro anni a raccontare i personaggi che uniti compongono il puzzle del racconto di Terra Mala.

 

 

Dalla mostra come si è arrivati al libro finanziato in crowfunding?​

Il progetto era stato presentato al festival di fotografia Imago di Orbetello, come mostra. Per la trasformazione in libro è stato decisivo Antonio Giordano, un oncologo di origini napoletane molto famoso, primario dello Sbarro Institute for cancer research and molecular medicine, presso la Temple University di Philadelphia negli Stati Uniti. Un medico molto attento alla problematica campana, che continua a mappare la zona dei malati e dei morti grazie al finanziamento dell’università americana. Visto che era autore della prefazione della mostra, quando venne a Orbetello a presentarla mi fece capire che di un’esposizione non sarebbe rimasta traccia, ma di un volume sì. Specialmente potendo girare l’Italia per illustrarlo e far capire alla gente che situazione c’è. Insomma sarebbe stato molto più forte. Quindi ho capito che dovevo fare il libro e siamo riusciti a finanziarlo con un crowdfunding.

La storia che mi ha colpito di più? Quella di una signora che quando si è ammalata di cancro, a Terzigno, si è accorta che nella sua via come lei c’erano dieci persone. Ha raccolto i nomi degli ammalati e dal suo quaderno è nato il registro dei tumori

Quale storia l’ha colpita di più?

Sicuramente quella di una signora che quando a circa 60 anni si è ammalata di tumore a Terzigno, un paesino del vesuviano, si è accorta che nella sua via c’erano più di decina di persone come lei malate di cancro. Cos’ha fatto? È andata in giro per tutto il centro abitato per due anni chiedendo chi si era ammalato, chi era morto e via dicendo. In maniera molto ‘agricola’ ha scritto su un quadernino i nomi delle persone. Dopo due anni è diventato il registro tumori di Terzigno, grazie ad un avvocatessa ambientalista che ha fatto diventare ufficiale la ricerca.

Il silenzio istituzionale sulle zone inquinate c’è sempre stato. Ma la gente ora è più consapevole, si attiva e segnala i roghi. Me lo disse l’attuale ministro dell’ambiente Sergio Costa, quand’era generale dei forestali in Campania, che le chiamate al 1515 erano aumentate 

In Italia i casi di grave inquinamento ambientale non si limitano alla Campania. C’è un silenzio istituzionale sulle contaminazioni?​

Il silenzio istituzionale c’è sempre stato. Io ho avuto modo di parlare con l’attuale ministro dell’ambiente, Sergio Costa, che conosce benissimo la Terra dei fuochi perché era generale del corpo forestale, poi dei carabinieri forestali, proprio in Campania. Quando ancora non era ministro, mi disse che le chiamate al numero 1515 di pronto intervento per le emergenze ambientali per denunciare i roghi tossici e altre irregolarità erano cresciute del mille per cento nei precedenti 4-5 anni, con nome e cognome. La gente non era più anonima, com’era stato per molto tempo. Questo per lui era un dato molto interessante, indicava come i cittadini avessero cominciato a prendere coscienza e a capire l’importanza di fare rete. Ma la situazione si sta muovendo in generale: ci sono tante applicazioni che gli attivisti utilizzano per segnalare in rete quando c’è un rogo o un deposito in una discarica abusiva. Da lì però a dire che le cose cambiano, non so, sicuramente c’è molta più attenzione. Chiaramente la bonifica costa così tanti soldi e non so se si farà mai.

Qual è il messaggio di fondo che esce dal progetto?

Il messaggio è sulla resilienza: sul merito di queste persone che hanno deciso di rimanere sul posto. Di non andare via e di metterci mano, unendosi. Mi ha colpito perché la prima cosa che ti viene in mente quando ti muore un figlio e ne hai un altro è andare via. Mentre la loro resistenza mi ha scosso. Lavorando ho capito che non andavo contro qualcosa, la camorra o la Terra dei fuochi, ma raccontavo gli eroi che hanno deciso di rimanere nella loro terra e di fare qualcosa per cambiarla.

 

 

Terra dei fuochi o Terre dei fuochi, in Italia?

Ci sono sicuramente più Terre dei fuochi: il bresciano, la Basilicata, la zona di Gela e di Taranto. Anche in Abruzzo da me ci sono scarichi illegali di amianto. Sud, centro, nord, fa poca differenza. 

Ci sono tante Terre dei fuochi: il bresciano, la Basilicata, la zona di Gela e di Taranto. Sud, centro, nord, fa poca differenza. Ma le persone restano e vanno aiutate

L’Ilva è un capitolo a parte?

Ci sono tante problematiche, riguardo all’Ilva, anche quest’ultima legata al passaggio alla multinazionale Arcelor-Mittal. Il dato però è che nel quartiere Tamburi di Taranto si continua a morire.

Ma anche in quel caso tante persone restano.​

È così, la resilienza: le persone vogliono migliorare la situazione in cui vivono. E vanno aiutate.