Gesellschaft | Libertà di parola

Hate speech, pericolo dalla e per la rete

Aggregazione - L'incitamento alla violenza online sta diventando un problema, ma l'istituzione di norme e regole rischia di minare la libertà di parola.
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Foto: BASIS Vinschgau Venosta

La rete è il luogo per eccellenza della libertà di parola, un gigantesco connettore di idee, gruppi e opinioni dove ognuno può trovare un proprio luogo d'espressione. E così in queste stanze di confronto e dialogo si producono migliaia di post, tweet, blog al minuto. Così tanti che non esiste un mezzo con il quale controllare ciò che gli utenti "vomitano" nella rete. Ad esempio, il social network YouTube assume ogni anno dei dipendenti con il compito di controllare tutti i video che vengono caricati; in questo modo contenuti violenti, inadatti o semplicemente illegali vengono rimossi. Per fare ciò è necessario un monitoraggio costante che non è realizzabile per la rete nella sua sconfinata interezza. Come controllare gli oltre due miliardi di post quotidiani su Facebook? Impossibile!
Il problema non se lo era posto nessuno, in un primo momento. Poi il fenomeno dello hate speech - o incitamento all'odio - è cresciuto fino a diventare un problema. Di cosa si tratta? Lo spiega bene il giornalista Antonio Russo sul Post.

Nel linguaggio ordinario indica un genere di offesa fondata su una qualsiasi discriminazione (razziale, etnica, religiosa, di genere o di orientamento sessuale) ai danni di un gruppo. La condanna dello hate speech – sia sul piano giuridico che nelle conversazioni al bar – sta in un equilibrio elastico ma spesso problematico con la libertà di parola.

E qui torniamo alla libertà di parola, perché se da un lato bisogna impedire che violenza e rabbia trovino nella rete una valvola di sfogo non solo incontrollabile ma anche incontenibile, dall'altro rimane il bisogno, anzi il diritto dei cittadini della rete di potersi esprimere. Fabio Chiusi, blogger per La Repubblica, ci descrive come in Italia la censura della rete abbia delle ripercussioni rilevanti sulla politica. E non a vantaggio del cittadino. Perché altrimenti a turno i diversi partiti ed esponenti politici premerebbero per "imbavagliare" blogger e utenti di social network?

Così, mentre si lamenta il «far west» di Internet, si moltiplicano i casi che dimostrano come all’opposto le norme ci siano eccome. E vengano applicate, sarà una coincidenza, con particolare durezza. A Varese, una blogger è stata condannata per diffamazione a causa dei commenti degli utenti. Al titolare del sito ‘Cartellopoli’, nato per documentare le affissioni abusive, è andata peggio: prima il sequestro, poi una sentenza da nove mesi di carcere e 20 mila euro di multa.

Fatto sta che il problema dello hate speech è una realtà concreta e quotidiana: quanti insulti in rete? Quanta discriminazione? Tra antisemiti, omofobi e intolleranti in generale la rete tracima violenza ed aggressività contro individui o gruppi sociali e culturali, come evidenzia questa ricerca svolta dalla Humboldt State University della California: una mappa interattiva dei discorsi razzisti o sessisti avvenuti su Twitter tra il giugno 2012 e l'aprile 2013.
Certo, qui si parla dell'America dove la presenza in rete è molto più capillare, eppure il fenomeno dell'incitamento all'odio sta dilagando anche in Europa, ponendo a gran voce il problema della priorità: difesa dei diritti dell'uomo o del diritto di parola?