Politik | Il Foglio

La Bosnia di ieri, l'Ucraina di oggi

L'editoriale di Adriano Sofri comparso sabato 6 agosto sul Foglio riprende le fila di un articolo pubblicato su salto.bz da Paolo Ghezzi.
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Foto: Ansa

Ho letto l’articolo in cui Paolo Ghezzi espone scrupolosamente gli argomenti del pacifismo inscalfito di cui Marco Tarquinio è diventato portabandiera, e li critica alla radice, da una posizione personale di cattolico e obiettore civile. Poiché lo condivido, e anzi non avrei saputo dirlo altrettanto bene, desidero fermarmi solo su un passaggio puntuale. A chi gli chiedeva della posizione ultima di Alexander Langer sulla necessità di un impiego della forza internazionale in Bosnia – dopo una strage di giovani a Tuzla, e soprattutto prima dell’impresa genocida di Srebrenica: Alex se ne andò prima – Tarquinio ha risposto “parlando di caso eccezionale, particolare (dunque ci sono, le eccezioni alla regola!), perché i caschi blu olandesi a Srebrenica si erano girati dall’altra parte e dunque pure Giovanni Paolo II…”. La Bosnia non fu affatto un caso eccezionale. Fu, al contrario, un caso esemplare. Anche per la lezione che l’assolutismo pacifista trasferito dalla morale personale ai movimenti e alla mobilitazione collettiva rifiutò di trarne. Il fastidio che tanto pacifismo di oggi sente nei confronti dell’Ucraina aggredita, e la inconcepibile comprensione che prova nei confronti del dispotismo grande-russo, riproducono esattamente, ampliando la scala dalla periferia balcanica al centro d’Europa, l’indifferenza per la piccola Bosnia (“musulmana”) e l’attrazione per la Serbia nazionalcomunista grande-serba di Milošević, vagheggiata come una storica roccaforte antifascista e comunista. E’ straordinario che l’intera campagna intesa a rendere la Nato responsabile della guerra d’Ucraina non abbia fatto che evocare l’intervento Nato per il Kosovo del 1999, spesso arrivando a definirlo come il primo ritorno della guerra in Europa dal 1945: nel 1999 la guerra post-yugoslava era finita da quattro anni, era durata più di quattro anni, e aveva fatto, nei calcoli più moderati, almeno dieci volte più vittime solo in Bosnia-Herzegovina. 
La nostalgia del comunismo si è accontentata per decenni delle sue ignobili contraffazioni, e non ne è ancora sazia. In chi non è mai stato comunista, che cosa la sostituisce, oltre al desiderio di un ordine organico, al misticismo dell’anima russa, alla cirillica paura del mondo senza Dio? Dev’esserci qualcosa di ancora più umano, più vicino, più piccolo, per suscitare una tale esaltazione.
Ansioso di ricongiungere Belgrado e Banja Luka e Odessa e Sebastopoli, quel legame sta bussando di nuovo alle porte. Sogna di mettere sullo stesso campo e nello stesso tempo la casa madre e la filiale serbista. Appena trent’anni dopo.