Gesellschaft | Profughi

"Smuggling" in diretta

Come i minori ricoverati in emergenza a Bolzano sono di fatto abbandonati a se stessi.
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Foto: upi

Mi trovo, per caso e per passione, in un centro di pronta accoglienza per profughi nella zona industriale di Bolzano e salgo, sempre per puro caso, al piano superiore della struttura, che è stato adibito in emergenza a zona di accoglienza per i minori trovati senza orientamento nella stazione di Bolzano o nel parco attiguo. Sono ragazzi non accompagnati, che vengono fermati nei treni diretti oltre confine e alloggiati temporaneamente, per loro protezione, in queste stanze.

Oggi non ce ne sono molti: un paio giocherellano seduti sul letto e uno, da solo, lo intravedo attraverso una parete a vetri intento sul suo cellulare, seduto su di una sedia in una specie di salottino. Mi affaccio alla porta e gli dico “Ciao”, lui alza il viso e mi risponde: “No english!”. “Italiano? Français?” ribatto io, scrutando il suo viso e i suoi tratti somatici. “Suriya”, risponde lui serio.

“Beh, allora MARHABA!” butto lì con forza, orgogliosa di poter rispolverare, come raramente accade, il mio scarso arabo.

Il ragazzo ricambia il mio saluto e poi inizia con una breve domanda in dialetto siriano velocissimo che io non capisco proprio. “Scusami”, continuo, “non parlo così bene l’arabo…”, lui alza le spalle e ritorna al suo cellulare. Ma io non demordo. “COSA VUOI?” chiedo a voce alta e chiara. “Voglio andare da mia mamma. Sta in Germania” afferma lui con tono altrettanto fermo.

Ma lui da solo il confine non lo può passare. “Ragazzo, tu sei piccolo, da solo non ti lasciano andare in Germania. Hai parlato con qualcuno?” chiedo allora. “No, nessuno mi sta aiutando”, è la risposta.

Abbasso gli occhi, penso a quello che potrei fare io, che è ben poco. Gli dico - bene o male - di non muoversi da lì, di non provare a salire su un treno, che sarei tornata, poi esco dalla soglia della stanza. Anzi, prima di andarmene mi riaffaccio: “Come ti chiami?”, chiedo. “Felice*” mi risponde serio. Bella coincidenza, penso io, Felice è disperato. “Quanti anni hai?” “14” asserisce guardandomi dritto negli occhi. Me ne vado con il cuore che batte forte.

Nel pomeriggio dello stesso giorno ingaggio un interprete al volo, rifugiato “precario” piazzato in un hotel della città in attesa che il destino suo e della sua giovane famiglia venga definito dai burocrati, il quale in modo gentilissimo si offre per questa mansione. Allora con Felice riusciamo a capirci meglio.

Scopro che sua mamma vive in Germania da 12 anni, e che dunque ha tutte le carte in regola per poter venire a prendere il figlio, devo solo informarmi sulle corrette procedure. Riusciamo anche a fare una chiamata WhatsApp con la mamma, e la informiamo che il modo migliore per rivedere il figlio sarebbe che lei lo venisse a prendere. Mi segno il numero germanico della mamma e prendo anche nota del numero siriano di Felice. Wow, penso, è il primo numero siriano che salvo sul mio cellulare!

“Felice, non ti muovere da qui, ok? Domani mi informo per le procedure e ci sentiamo presto!”, dico io. Ma Felice non smette di smanettare sul suo cellulare maledettamente connesso al WiFi della struttura fino alla sera tardi. Ci saluta con un sorriso che lo trasforma nel bambino che in fondo è ancora.

Sulla strada del ritorno provo a connettermi con il ragazzo, ma il mio cellulare, sebbene indichi che il numero siriano ha un account WhatsApp, non ne vuole sapere di iniziare la connessione. Mi dice che il numero non è registrato e che devo invitare l’utente ad usare WhatsApp tramite SMS. Dunque desisto.

 

 

“OK”, mi arriva poco dopo al cellulare. Non so ancora come, ma quel diavolo di ragazzo ce l’ha fatta! Siamo connessi.

“Ok”, rispondo ansiosa, e lui “Bae”, che evidentemente vuol dire “Bye”.

“Bye bye” rispondo io “non avere paura, tutto si metterà a posto”, scrivo in alfabeto maiuscolo per permettergli di capire meglio la sua lingua malamente scritta con il nostro alfabeto.

Chissà se Felice aveva veramente paura, chissà con quale determinazione da adulto aveva pensato e organizzato il suo lungo viaggio… “Ok”, mi risponde, probabilmente per farmi piacere.

Il giorno successivo mi informo delle procedure e verso mezzogiorno corro al centro di accoglienza.

Felice non c’è. “Come stai Felice. Dove sei?”, gli scrivo. Chiedo a un altro minore africano che ciondola lì sopra nella stanza dei minori. “Rahh! (Se n’è andato)” afferma lui alzando il mento, ma scopro che è l’unica parola in arabo che conosce. Non posso avere ulteriori informazioni da nessuno. Su WhatsApp vedo che l’ultima connessione del ragazzo è stata la mattina alle 9:21. Un operatore della struttura mi dice che spesso i minori escono di giorno e tornano la sera, così aspetto.

Aspetto e guardo WhatsApp. Aspettando, noto che Felice ha cambiato la sua immagine del profilo:

 

Ieri c’era un’immagine di uccelli e fiori su sfondo giallo limone con mezza scritta in arabo, che non ero riuscita a decifrare. Oggi splende un good morning d’oro e cristallo… forse Felice è felice.

Ma perché non torna? Si fa sera, si fa quasi notte e l’ultima connessione è sempre alle 9:21 della mattina. Vado al cinema per un documentario di Zelig che tratta proprio di un profugo siriano ospitato in una cittadina svedese ai limiti del circolo polare artico. Penso inevitabilmente a Felice.

Vibra il cellulare e con lui vibro anche io: è lui.

 

 

Agitata e con il mio scarso arabo, ci metto un po’ a decifrare: “Ecco. Sono arrivato in Germania”. Rileggo per assicurarmi di avere letto giusto, dopo di che tremo, sorrido e scrivo:

 

 

“Auguri” e tutte le faccine, poi “Saluta tua mamma”. Il ragazzo più tardi ricambia cortesemente i saluti.

Eppure inghiotto amaro. Non ho potuto che essere contenta per Felice che ha raggiunto la mamma, ma rifletto sulla via più veloce che scelgono i migranti per passare il confine: i trafficanti di esseri umani. Rifletto sul denaro che gira attorno a questo affare, sulle connessioni, sulle reti che arrivano a un ragazzo perso a Bolzano. In mano a quelle persone, Felice di 14 anni, sano e forte, poteva partire e non arrivare più da nessuna parte. E come lui tanti altri minori, “accolti” per dire nella ricca Bolzano in un paio di stanze calde, con cibo e WiFi a disposizione, ma senza alcuna assistenza o consulenza, senza alcun accompagnamento, che indichi loro la strada più sicura e legale per raggiungere i loro cari.

Inghiotto amaro, caro Felice. Che la vita ti sorrida, ragazzo mio, e che l’”accoglienza” per te sia diversa da quella avuta qui da noi. Te lo meriti Felice, per i tuoi occhi e il tuo fare da ragazzo adulto e per il bellissimo nome che porti!

 

*Il nome non è ovviamente italiano, ma la sua traduzione significa esattamente “felice”.