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Care aquile, fate largo al Tacchino

Presentato ieri a Bolzano il libro "Divertimenti tristi" di Enrico De Zordo. "Prendere la mira e mancare esattamente un punto indefinito lontano dal bersaglio".
De Zordo, Enrico
Foto: Nicola Arrigoni

“La prima avventura, allora, fu trasformare in scrittura quei discorsi vasti e volatili come le quattordici sostanze che gli enologi riscontrano nel vino”. Così scrive Gabriele Di Luca nella postfazione a Divertimenti tristi, il libro di Enrico De Zordo edito dalle edizioni alphabeta. Il libro, una raccolta di centoundici prose minime, è stato presentato ieri, 7 maggio, all'interno della libreria Ubik di Bolzano – e ad accompagnare il reading dei testi di De Zordo, le note chiare del maestro violinista Marcello Fera, che ha eseguito quattro pezzi originali.

“I primi racconti del libro, ma che si trovano alla fine del testo, nacquero come stampella ai fatti di cronaca e alle vicende politiche del Sudtirolo, immagini letterarie che sigillavano le classiche discussioni politiche da forum. De Zordo attraverso le sue lipografie ha tolto quindi il grasso della realtà e della retorica, per giungere a una letteratura essenziale, una letteratura assoluta. Il lavoro di scrittura è durato tredici anni ed è stato difficile convincerlo a pubblicare”. Di Luca ha introdotto così alla lettura dei testi di EDZ, mettendo il luce il processo di rarefazione letteraria, cioè il tentativo di rimuovere la pesentezza della realtà, affinché le parole si possano dissolvere senza lasciare il minimo segno della loro precedente, pre-letteraria, esistenza.

 

 

Questo lavoro in togliere è funzionale a circoscrivere il cuore stilistico dei piccoli racconti di De Zordo, il loro sentore agro-dolce e l'equilibrio sottile sul quale si reggono. “Il titolo del libro si bilancia da solo. Da una parte è presente il lato umoristico, che però se fosse troppo marcato darebbe vita a una comicità che non mi piace. Dall'altra c'è il lato malinconico, che da solo non resisterebbe sotto la gravità della pesantezza. I due aspetti da soli non funzionano”, dice De Zordo, come se avesse in realtà esposto la sua dichiarazione di poetica, in merito al suo lavoro di purificazione degli scritti all'interno della raccolta.

 

Enrico De Zordo legge il racconto "Il posto fisso" tratto da "Divertimenti Tristi".

“L’inerzia, l’opacità del mondo. Qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle”, scriveva Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane, ovvero la lezione sulla Leggerezza – e De Zordo, confrontandosi con i grandi della letteratura, è riuscito a sfuggire all'opacità del mondo, anzi, a distogliere lo sguardo volontariamente da ciò che la cronaca decide essere importante. "Il segreto è prendere la mira e mancare esattamente un punto indefinito lontano dal bersaglio”.

E l'intenzione riesce anche nell'Appendice al libro, dopo le sezioni Cipria Turchese e Racconto Rotto. Foglietti Sudtirolesi e altri vicoli ciechi, appunto, è l'inizio cronologico della storia di Divertimenti Tristi, un'appendice che si manifesta come anti-racconto alle vicende locali. La storia di Piero, il macaco di Bolzano, ingabbiato all'interno della Giardineria Comunale, è invece - per EDZ - l'ideale inizio della Storia altoatesina, che si presenta, con tutte le sue idiosincrasie, come un assillo notturno, un grosso macigno sospeso nell'aria, di cui però il peso non si riesce ancora a conoscere.

 

 

“Ho cercato di trarre dallo sciopero degli eventi del Sudtirolo, cioè il fatto che qui la storia si sia quasi fermata, la rappresentazione della normalità del tacchino domestico, come quello della copertina del libro, che poi è una punta secca acquarellata di Verena Winkler, mia moglie. Il tacchino domestico – quello selvatico è tutt'altra storia – è la rappresentazione dei vinti per eccellenza. E internamente simpatizzo molto per questo animale. Se apriamo qualsiasi libro dei simboli, infatti, all'aquila sono dedicate moltissime pagine. Il tacchino ha solamente due righe”.

L'irresistibile metafisica del tacchino esposta da De Zordo si ricollega all'intero svolgimento di parole del libro, in particolare si colloca in contrasto e in contrappunto al metaforico pullulare di aquile del cielo sopra Bolzano, visto da Zordo: “l'aquila dell'Antico Testamento, l'aquila induista, l'aquila del Terzo Reich, l'aquila napoleonica, l'aquila-demonio, l'aquila della tradizione pellerossa, l'aquila fascista, l'aquila bicipite austriaca, l'aquila simbolo di Cristo, l'aquila albanese, l'aquila polacca, l'aquila-giustizia di Dante”.

Le aquile, simbolo della fissità della storia farsesca del Sudtirolo, lasciano spazio al Tacchino, il tacchino domestico della straordinarietà dell'ordinario, della fierezza della normalità: “E il tacchino se ne sta appollaiato sul ramo secco della letteratura italiana degli anni 60' e '70, quella che piace a me. E il tacchino si affranca, soprattutto, dagli schemi della pesantezza”.