Gesellschaft | Fotografia

Le prime cose di ogni nuovo mondo

Inaugurata al Teatro Cristallo l'esposizione “Here I am”, curata da Ludwig Thalheimer. Protagonisti (attivi) 20 migranti residenti nella casa Aaron di Bolzano.
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Foto: Ludwig Thalheimer (fonte facebook)

Here I am”, prima di essere il titolo di una mostra, è una collana di rivelazioni e di emozioni. Io: il pronome che ci identifica, che afferma l'autopercezione e stimola la percezione altrui. Sono: il verbo che ci lega al mondo, l'indicativo presente tracciato attorno all'io, il primo cerchio delle cose visibili e dunque anche di quelle invisibili. Qui: la determinazione spaziale, la collocazione imprescindibile, poiché tutto ciò che accade (e dunque “è”) e ci riguarda (riguarda l'“io” che ognuno di noi “è”) implica una scena, un luogo, lo spazio, la dimensionalità. Ma soprattutto: io sono qui è recupero, affermazione di soggettività, è lo sguardo che si indirizza per la prima volta su chi si è sempre arrogato il diritto di guardare senza essere guardato, indagando un rapporto di potere che passa anche per il dominio delle immagini, il loro controllo, la loro disciplina. “Fotografare – ha scritto Susan Sonntagsignifica appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere”. Dimmi cosa e chi guardi (specialmente se il chi diventa una cosa) e ti dirò cosa puoi.

Per cogliere in negativo tutta la carica sovvertitrice delle fotografie scattate dai migranti della Casa Aaron – un'opera collettiva resa possibile dal fotografo bolzanino Ludwig Thalheimer – occorre forse partire dal suo ignobile opposto, ovvero da quelle documentazioni che ogni tanto vediamo apparire sui social network e mediante le quali utenti volgari e razzisti amano ritrarre i migranti in situazioni di “degrado” (vale a dire rendendoli esplicitamente la causa di tale “degrado”). Sotto lo schermo ipocrita di una denuncia che vorrebbe ristabilire il pubblico decoro, questi personaggi danno la caccia allo “straniero” munito di bicicletta e telefonino per esporlo alla gogna di offese indicibili. Oppure desolazione che si somma a desolazione: il giaciglio di fortuna ricavato sotto a una galleria, in un sottopassaggio, ma anche semplicemente persone sedute su una panchina, per dire che non stanno facendo nulla, che passano il tempo oziando, rubando la quiete ai tranquilli passanti costretti a sopportarne l'indesiderata presenza. Come potrebbero sottrarsi i migranti a questo sguardo violento e interessato? Dev'essere stata questa la domanda che si è posto Thalheimer. E la risposta: basta metterli nella condizione di puntare il loro sguardo su chi li guarda, su di noi, sul nostro mondo, aprendosi e aprendoci finalmente ad un incontro, un salutare scambio di punti di vista.

E allora prima di tutto i nomi. Io sono Amadou, io sono Adama, io sono Yahya, io sono Stella, io sono Favor.... 20 nomi, venti fotografi in giro per le nostra città, a dire ci sono, ci siamo, non siamo qui solo per essere visti (o più verosimilmente nascosti), ma per vedere e capire e farci capire. Le fotografie ritraggono ambienti noti, ma anche frammenti finiti da tempo alla periferia dell'attenzione. Case, vie, parchi, negozi, auto, cibi, montagne, alberi, fiumi. Oppure persone. “Mi chiamo Favor, ho 25 anni, vengo dalla Nigeria e vivo a Bolzano da 15 mesi. Mi piace fotografare. Ho scelto di fotografare il Natale a Bolzano, perché la prima volta che ho visitato il mercatino di Natale ho visto solo gente felice. Sono cristiana e anche nel mio paese ogni anno a Natale festeggiamo la nascita di Gesù Bambino. Sono felice di essere cristiana”. O ancora: “Mi chiamo Mounirou, ho 28 anni, vengo dal Togo e vivo a Bolzano da 14 mesi. Ho scelto di fotografare il cibo, perché il cibo è vita. In Europa il cibo è diverso da quello in Africa. Mi piace cucinare e assaggiare nuovi prodotti. Per esempio mi piacciono le mele, che però in Africa non vengono coltivate. Si trovano solo mele importate, ma costano tantissimo”. La frattura tra il nostro sguardo e il loro si ricompone lentamente, oltre la tecnica in apparenza omologante della riproduzione fotografica. Imparando a guardare, essi ci insegnano a vedere il rovescio del nostro sguardo.

Ritrovo e modifico impercettibilmente un passaggio del film di Mark RomanekOne Hour Photo”: “...se queste immagini potranno mai avere un significato per le generazioni future, sarà questo: io c’ero, sono esistito. Sono stato giovane, sono stato felice e qualcuno a questo mondo mi ha voluto abbastanza bene da farmi [fare] una fotografia”. "Here I am" non è solo una mostra di fotografia, potrebbe essere anche l'inizio di un dialogo, fatto con parole che sono luce e sono oggetti. Le prime cose di ogni nuovo mondo (per loro e per noi).

La mostra “Here I am” è visitabile al Teatro Cristallo di Bolzano fino all'8 gennaio 2017 o consultabile online al seguente indirizzo: www.hereiam.bz.it