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La zona grigia delle lobby

Registro obbligatorio per la trasparenza dei gruppi di pressione solo in 6 Paesi UE. In Italia mancano ancora regole chiare.
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Foto: Rob Wanders

Quando si parla di lobby, spesso e specie in Italia, è facile pensare a un sottobosco di loschi faccendieri e a un sistema di mutui guadagni con il pantheon politico. Il motivo: l’assenza di regole che disciplinino questi cosiddetti gruppi di pressione e che contribuisce a confondere il legittimo lavoro dei lobbisti. In 6 Paesi europei su 29 (28 stati membri più l’Ue), ossia nella vicina Austria, in Irlanda, Lituania, Polonia, Regno Unito e Slovenia  - come rivela un’indagine di Openpolis in base a uno studio di aprile 2016 redatto dal servizio di ricerca del parlamento europeo - esiste da anni, il registro obbligatorio per la trasparenza delle lobby, documento che presenta, tuttavia, pro e contro. In Italia, la mancanza di regolamentazione, ha inevitabilmente effetti, anche discutibili, sui processi democratici, tenendo conto del fatto che i gruppi di pressione hanno sempre fatto parte delle dinamiche decisionali, ragion per cui è in atto un’operazione-trasparenza che tenta di allontanare le ombre da questo fenomeno.

 

Il quadro italiano

Il 26 aprile 2016 la giunta per il regolamento di Montecitorio ha approvato la Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nella sedi della camera dei deputati. All’inizio di settembre Carlo Calenda, ministro per lo sviluppo economico, ha lanciato un registro per la trasparenza nel suo dicastero, ispirato a quello delle istituzioni europee, e oltre 130 organizzazioni si sono già accreditate. C’è da dire che in Parlamento sono stati presentati vari testi per regolamentare la materia e, sempre a inizio settembre, in commissione Affari costituzionali del Senato erano ripresi i lavori con la discussione congiunta di alcuni di questi. Ruolo degno di nota hanno gli intergruppi parlamentari nelle dinamiche politiche di Camera e Senato. Tali entità, si legge nel rapporto, riuniscono politici provenienti da entrambi i rami del parlamento e da vari gruppi, anche di opposto colore politico, uniti da un interesse comune che può essere il più disparato, qualche esempio: c’è un intergruppo per l’invecchiamento attivo, uno per la sussidiarietà, uno sulle questioni di genere. Ma anche nel caso degli intergruppi non ci sono regolamentazioni. In questo senso il Parlamento europeo fornisce molti spunti interessanti. Le organizzazioni che si accreditano nel registro per la trasparenza devono dichiarare se appartengono o partecipano all'attività degli intergruppi dell'Europarlamento, e se sì, quali sono. In aggiunta, nel dicembre 1999, il Parlamento europeo ha stilato le regole per creare gli intergruppi e stabilito i requisiti necessari.

 

Il quadro europeo

Risale all’8 maggio 2008 l’istituzione, da parte dell’Europarlamento, del registro per la trasparenza dell’Unione. Sono quasi 10.000 le strutture accreditate, per lo più organizzazioni non governative o lobbisti interni di aziende e associazioni di categoria. Il documento, perfettibile, rappresenta comunque un metodo più progredito rispetto alla situazione italiana. Limiti del registro europeo sono principalmente l’iscrizione non obbligatoria e una definizione delle attività volte a influenzare i processi decisionali e legislativi dell’Ue troppo vaga, cosa che rende molto ampia la serie di soggetti che possono registrarsi. Le organizzazioni che decidono di accreditarsi spesso compilano male il questionario, inserendo dati errati e mal interpretando le informazioni richieste. Alcune organizzazioni, tra cui Alter-Eu e Transparency International, da mesi si battono per rinnovare e potenziare questo strumento. Esistono inoltre codici etici di comportamento per i lobbisti, presenti nel 20,69% dei casi. Mentre nel 31,03% delle situazioni si punta sull’autoregolamentazione, dalle proposte della società civile alle unioni di lobby, che decidono di stipulare un codice indipendente colmando una lacuna normativa. In generale fra i pro del registro c’è il fatto che vengono fornite informazioni sulle sedi delle organizzazioni, i referenti e le spese, punto quest’ultimo ancora da migliorare viste alcune incongruenze. Un esempio: 731 organizzazioni dichiarano di spendere meno di 50 euro in attività di lobbying e 90 più di un milione.