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Il 2020 sarà ancora l'anno del rancore?

"Ci muoviamo sopra le macerie" scrive Massimilano Valerii (direttore del Censis). Alla società passerà la febbre della nostalgia? Come affrontare il nuovo anno?
Sospeso
Foto: Pixabay

Partiamo da una domanda: il 2020 – e gli anni a venire – saranno ancora in balia del rancore e del risentimento? La parola risentimento è il titolo di una raccolta di racconti di cui si è già parlato su questo giornale, il nome della collana è Parole del tempo/Zeitworte. Il primo racconto è quello dello scrittore siciliano Giorgio Vasta e comincia così: “Ho quarantotto anni, sono un uomo risentimentale”, incipit di un racconto che prosegue come un contemporaneo Memorie dal sottosuolo. Interessante è notare come la parola sia stata la prima ad essere scelta per inaugurare una nuova collana di narrativa, che riportasse sulla carta l’immaginario del sentimento del tempo, un immaginario nuovo: uno dei pochi usciti fuori durante la crisi dell’immaginario collettivo, in piena frantumazione. “Oggi non c’è omogeneità di cognizioni” scriveva già Alberto Savinio alla voce ‘enciclopedia’ del libro di critica culturale Nuova enciclopedia, negli anni ’40 del secolo scorso.

Di frantumazione (e quindi di crisi) e di società del rancore – che è affine al risentimento – ha scritto Massimiliano Valerii, il direttore dell’istituto di ricerca socio-economica Censis e curatore dell’annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese, quell’almanacco che spiega ‘come sono fatti gli italiani’, anno per anno. L’autore – di formazione filosofica – descrive il profilo di un’Italia che ha subito dei traumi: la rottura dell’ascensore sociale (i figli non guadagnano più dei genitori), la fine del sogno di un’Europa da considerare come ‘casa’, la fine delle ideologie e la rivoluzione tecnologica che invece di salvare il mondo spaventa i più. La paura di essere nella società dell’impotenza, la paura di essere inadeguati al mondo contemporaneo, la paura di non poter godere del benessere che hanno ‘gli altri’: questo genera il risentimento, “che della paura è il figlio illegittimo”, scrive Valerii. Le persone sono alla ricerca di capri espiatori, sperdute tra le miriadi di stimoli che la contemporaneità impone. I timori e le ansie genererebbero quello che l’autore chiama ‘sovranismo psichico’: non è una definizione politica ma una definizione antropologica, l’attitudine che si tiene di fronte ai perigli della vita quotidiana. Uno dei rischi che si corre quando si comincia ad avere paura del contemporaneo è quello di diventare dei 'reazionari'. Secondo lo storico della Columbia University e autore della New York Review of Books Mark Lilla, il reazionario è una figura da prendere sul serio. Al pari del rivoluzionario è spinto da motivazioni profonde e radicali che portano alla nostalgia politica e militante, a una nostalgia per una fittizia età dell'oro, che si rigenera di volta in volta a ogni cambiamento sociale. "Dove altri vedono ai propri occhi il fiume del tempo scorrere come ha sempre fatto, il reazionario vede galleggiare i relitti del paradiso. È un esiliato dal tempo", scrive Lilla in Il naufragio della ragione. Il cuore di ogni narrazione reazionaria (sempre secondo Lilla) è il tradimento delle élite culturali che mettono in discussione la presunta età dell'oro.

 

 

Valerii - per sanare una situazione già grave - si fa portatore di una proposta costruita sugli studi filosofici (e che ha convinto meno chi scrive). Può la filosofia salvare il mondo? Per Valerii si deve: ma come? Attraverso gli insegnamenti di Ernst Bloch, Hegel e Cartesio. L’ultimo dovrebbe insegnare a desiderare e il desiderio crea immaginario, quello che al mondo contemporaneo manca; Hegel (visto dall’autore come un rivoluzionario, non come un conservatore) potrebbe convincerci a credere nel potenziale umano e Ernst Bloch – pensatore più sconosciuto degli altri due – a fare la cosa più difficile per estirpare il problema alla radice: non avere paura. La proposta di Valerii, una proposta filosofica, vorrebbe trasmettere un cambio di mentalità, più che di direzione politica: vuole trasmettere un’alternativa attitudine alla vita. Insomma, bisogna osare. A chi scrive - come detto - ha convinto di più l’analisi dell’autore, che di certo apre una serie di domande (a cui è forse impossibile rispondere) che aprono infinite altre domande sulla condizione umana contemporanea. Ed è dalla riflessione sulla condizione umana che nascono le idee migliori, quelle che sorgono e poi crescono sul terreno delle domande sull’incerto – senza però cadere nei ‘pericoli dell’astrazione’, come Christy Wampole ha definito la vaghezza sul New York Times qualche mese fa. Per questo è anche bene non tentare di prevedere il futuro.

Tuttavia, i quesiti che fa venire in mente l'autore sono molti, a partire da quelli che riguardano le giovani generazioni, che non hanno in mente la fine della storia e che non vanno a tentoni, non soffrono ancora la sindrome dell'esclusione in stadio avanzato, sorte che hanno subito i millennial. Le generazioni di giovani che Mario Draghi ha definito le meglio istruite della storia, secondo Valerii rimangono, però, fuori dalla porta del mercato, fuori dal mondo del lavoro e dalle posizioni di rilievo: fuori dai giochi. Il calo demografico e l’invecchiamento del paese non giocano a favore di coloro che sono nati dentro la contemporaneità: conoscenze specifiche, conoscenza delle lingue straniere e apertura verso la globalità. Riuscirà la Generazione Z a entrare nella stanza dei bottoni? I giovani sono circondati da stimoli culturali più che in ogni altra epoca storica, la cultura massificata è ricca di prodotti di qualità e di riflessioni di rilievo. Magari i contenuti non sono più fruiti solo attraverso i libri (anche se in Italia i lettori forti sono i ragazzi e le donne) ma attraverso i fumetti, le serie televisive, il video e i podcast (ovvero la televisione e la radio che hanno fatto un upgrade). Ed è in questi prodotti che si è riversata la buona scrittura  e dove ha trovato sede la riflessione sul mondo contemporaneo. Il problema forse è la quantità. E quindi chi è che fa la selezione, in un mondo in cui ognuno è padrone del proprio palinsesto? Come faranno le agenzie culturali canoniche (la scuola, l’università) a gestire questi fenomeni e a rispondere a questa 'esigenza di contemporaneità' – se sarà necessario farlo? In altre parole: può l’educazione canonica aiutare a sconfiggere la nostalgia e il rancore attraverso la conoscenza e la cultura che appartiene o apparterrà a chi non ha ancora subito i traumi delle generazioni passate, oppure ce la si dovrà cavare da soli, sperando per il meglio? Riuscirà la Generazione Z a creare un nuovo immaginario che non sia quello del risentimento, della nostalgia o della distopia? Aspettiamo, desiderando che il mondo non venga salvato dalle vecchie zie.